Le prime quattro battaglie dell’Isonzo

Le prime quattro battaglie dell’Isonzo

Terminate le operazioni di approccio, perlopiù inconcluse rispetto al piano iniziale, il Comando supremo diede corso alla manovra offensiva che prese il nome di prima battaglia dell’Isonzo, con inizio il 23 giugno 1915. La superiorità dell’attaccante in uomini e artiglierie era schiacciante, pari ad almeno tre volte l’avversario, che peraltro si avvaleva di posizioni difensive ben studiate. Tuttavia, le forze impegnate non si discostavano troppo da quelle delle azioni militari di contatto di qualche settimana prima. La direttrice di marcia dell’offensiva era la valle del Vipacco, accesso all’interno dell’Impero. Il fronte di Tolmino e l’area di Plava-Gorizia erano le zone dove si sarebbe esercitato il maggiore sforzo, la linea del Carso avrebbe avuto la funzione di impegnare gli imperiali richiamando le loro forze. Lo sforzo attraverso la testa di ponte di Plava, sopra Gorizia, si sarebbe progressivamente esteso verso sud, per prendere a rovescio il capoluogo isontino. Gli attacchi portati agli obiettivi, reiterati secondo la logica dell’attacco frontale, risultarono in realtà poco coordinati, inefficaci, frantumati dalla nervosa apertura di nuove linee di contatto con il nemico. A Plava l’attacco fu respinto. L’offensiva riprese davanti a Gorizia, con gli assalti al tratto difensivo delle colline occidentali: ad Oslavia, sul Sabotino, poi sul Podgora, senza risultati convincenti. Dopo alcuni giorni di sforzi ripetuti inutilmente, un nuovo fronte fu aperto sul Carso, dalla zona pedecarsica verso l’altopiano, lungo la linea che da Peteano-Sdraussina giunge a Monfalcone. Le truppe italiane cercarono di risalire le pendici dell’altopiano e nella zona di Castelnuovo, sopra Sagrado; i reparti sboccarono sull’altopiano irradiandosi alla destra verso San Martino-San Michele, a sinistra in direzione del Sei Busi, ma vennero fermati. Il baricentro dell’azione offensiva si spostò poi di nuovo sul capoluogo isontino, senza risultati plausibili. Nel mentre, tra Redipuglia e Ronchi, superato il canale de Dottori, furono presi d’assalto i rilievi dei Sei Busi e del Cosich, con qualche progresso solo nel primo caso. Ai primi di luglio, un ritorno offensivo degli italiani ebbe luogo nell’area di Tolmino in direzione Mrzli-Sleme: l’intento era di richiamare truppe austriache a nord. Ma ormai sull’intero fronte dell’Isonzo, entro il 7 luglio, le attività belliche cessarono. Le perdite in morti, feriti e dispersi assommarono a circa 15.000 unità da parte italiana, oltre 10.000 da parte imperiale. L’esperienza aveva dimostrato che solo il Carso, in ragione di un terreno più aperto, seppure difficile, offriva una ragionevole opportunità di riuscita per gli sforzi offensivi italiani. D’altro canto, si ravvisavano la scarsezza di forze e complementi di truppa, la penuria di ufficiali, l’insufficienza di artiglieria di grosso calibro e munizionamento.
Anche la seconda battaglia dell’Isonzo, iniziata il 18 luglio 1915 e conclusa il 4 agosto, confermò la tendenza di Luigi Cadorna di impegnare l’avversario su ampie fronti per fissare le sue forze e impedirgli di concentrare le riserve in un unico settore. L’Ordine di operazioni fu emanato il 15 luglio. L’operazione militare fu però in questo caso polarizzata sul Carso, in cui più incoraggianti erano state nella prima battaglia le occasioni di sfondamento. Infatti la direttrice d’attacco fu rappresentata dal tratto San Michele-San Martino, anche con l’intento secondario di migliorare le tuttora precarie posizioni sull’altopiano, sino al monte Cosich. Il San Michele, «monte dalle quattro cime», costituiva il bastione della difesa meridionale di Gorizia e l’ostacolo sul varco del Vipacco. Lo sforzo maggiore avveniva dunque sul fronte della III armata, che tuttavia non aveva incrementato la forza organica delle sue truppe. Le attività a monte e a valle di Plava avevano invece un ruolo sussidiario. Il combattimento fu caratterizzo subito dal tentativo italiano di avvolgere e occupare il monte San Michele, con allargamento dell’operazione verso il Sei Busi e la linea Vermegliano-Doberdò, attorno al Cosich. Dal 20 al 26 luglio le cime del San Michele vennero a due riprese occupate e perdute, tra furiosi attacchi italiani e contrattacchi austro-ungarici. Un contrassalto imperiale, nel tentativo di sgomberare gli italiani dal plateau, mise addirittura a repentaglio le nostre posizioni poco sopra Sdraussina, sulle falde del San Michele. Fu respinto con difficoltà. La pressione delle brigate italiane fece sì che anche la sommità del Sei busi venisse evacuata dagli austro-ungheresi e rimanesse terra di nessuno. Alcuni sviluppi positivi per il Regio esercito maturarono ai bordi della conca di Doberdò. Sul resto del fronte, operazioni offensive sussidiarie furono portate sulle colline a occidente di Gorizia, in particolare sul Calvario, e ad est del Monte Nero, con la conquista delle cima denominata Monte Rosso. La seconda offensiva si chiudeva con gravi perdite umane (42.000 tra gli italiani; maggiori di qualche migliaio quelle della Monarchia) e l’esaurimento delle capacità combattive per entrambi i contendenti. Ancora una volta da parte italiana si poterono rilevare l’insufficiente concentramento delle artiglierie e le eccessive diversioni nell’impiego delle truppe.
La ripresa offensiva, dopo una pausa volta a riassorbire le perdite, a riorganizzare i reparti e accumulare i materiali d’artiglieria e le munizioni, ebbe luogo ad ottobre. Nell’estate, elementi di nervosismo e di apprensione avevano segnato le valutazioni nel Comando supremo sulle condizioni dell’esercito, come la crisi nella disponibilità di ufficiali, dovuta alle rilevanti perdite, e l’insufficiente assegnazione di complementi di truppa, la diffusione del colera e della gastro-enterite nei reparti, le prime critiche alle modalità dell’attacco frontale. In parte le spinosità erano state riassorbite con l’afflusso di nuove dotazioni e risorse umane e materiali. La crescita degli schieramenti contrapposti era in realtà stata rilevante, nel numero dei soldati e negli equipaggiamenti; la proporzione di forze tra attaccanti e difensori rimaneva tuttavia grosso modo la stessa. Al forte incremento del parco d’artiglieria italiano, corrispondeva il robusto consolidamento delle difese imperiali, che avevano raggiunto una continuità e una profondità impressionanti. Il punto di rottura individuato dagli italiani nel piano d’operazioni era sempre la confluenza tra Isonzo e Vipacco. La manovra sarebbe partita dalle ali attorno al campo trincerato di Gorizia, Plava e il Carso. Si prevedeva di forzare le linee austriache sopra Canale, verso la Bainsizza, di allargare la testa di ponte di Plava verso sud (monte Kuk) e nel contempo di impegnare con forza gli avversari sulla linea dal San Michele al gruppo del Cosich- Debeli, nei pressi di Monfalcone. Le operazioni ebbero inizio il 18 ottobre 1915 ma incontrarono subito difficoltà di rilievo. Il passaggio dell’Isonzo sopra Plava non sortì risultati, né la testa di ponte poté essere ampliata verso sud; fallì l’operazione verso la Bainsizza. Gli sforzi sul monte San Michele, verso cui furono reiterati assalti cruenti, portarono alla conquista di Cima Tre e Quattro, che tuttavia non poterono esser tenute. La lotta proseguì sulle propaggini carsiche del Sei Busi e, verso San Martino, davanti ai trinceramenti austro-ungarici denominati delle Frasche e dei Razzi, ben addentro il margine dell’altopiano. I combattimenti, seguendo la prassi cadorniana, si saldarono con gli attacchi alle difese davanti a Gorizia, tra Sabotino, Oslavia e Podgora. Poi il fronte si fermò, il 4 novembre. Le perdite nei due eserciti furono altissime. Da parte italiana, fatte salve le rettifiche sull’acrocoro carsico, gli obiettivi ancora una volta erano tutti stati mancati.
Le ostilità ripresero neanche una settimana dopo, il 10 novembre, e nell’indifferenza per il logoramento delle truppe, con la quarta battaglia dell’Isonzo: alcuni studiosi reputano questa e la precedente spallata offensiva come fasi di un’unica grande manovra autunnale. Interessato fu tutto l’arco del fronte, da Plezzo al mare, anche se i punti della focalizzazione offensiva vennero identificati ancora una volta nella linea davanti a Gorizia e dalla corda d’arco che dal pilastro del San Michele giunge al Sei Busi. La trincea delle Frasche e quella dei Razzi furono conquistate d’impeto dai fanti sardi della brigata Sassari il 13 e il 14 novembre. Gli attacchi sui colli goriziani non produssero significativi risultati; qualche revisione delle posizioni fu ottenuta ad Oslavia. Il tentativo di risoluzione sul San Michele e sul Sei Busi fu respinto. L’allargamento dei combattimenti al Carso monfalconese e a Plava giocò soltanto un ruolo dimostrativo. Dopo qualche giorno di sospensione degli scontri, la battaglia si ravvivò il 18 novembre, con la decisione di Cadorna di lasciare alle grandi unità l’individuazione degli obiettivi specifici nel proprio settore. Davanti ad Oslavia e sulla sella di San Martino avvennero le mischie più sanguinose. L’estensione degli attacchi a Plava e Tolmino fu priva di risultati. Gli scontri si affievolirono ovunque, per esaurirsi il 2 dicembre. Le perdite erano state ingentissime: oltre 110.000 morti, feriti e dispersi, di fronte a più di 70.000 della parte imperiale, nelle due battaglie dell’autunno. Aveva inizio la pausa invernale.
Il bilancio complessivo delle offensive italiane poteva considerarsi sterile di risultati. Nei combattimenti da giugno a dicembre, l’unico effetto degno di apprezzamento stava nel fatto per cui, superato il margine del Carso, tra Sagrado e Ronchi, le truppe italiane avevano guadagnato spazio sull’altipiano, unitamente alla circostanza che davanti a Gorizia le truppe italiane erano a ridosso della linea di cresta delle colline che difendevano la città ad occidente. In un quadro più largo, le operazioni delle altre armate, la prima e la quarta, avevano assunto un ruolo puramente ausiliario, con azioni volte a superare gli sbarramenti austriaci e a rettificare o migliorare le posizioni, pur in presenza di atti bellici importanti, come quelli attorno al Col di Lana. Anche sul fronte alpino gli obiettivi strategici erano stati tutti mancati. L’anno si chiudeva con un esito insoddisfacente nella conduzione strategica e con la necessità di riconsiderare i punti di vulnerabilità mostrati dal nostro esercito, al di là del comportamento coraggioso, del sacrificio e del valore del combattente. L’esitante impiego della massa, la dispersione delle truppe, la parsimoniosa utilizzazione delle riserve, la rigidità degli attacchi frontali, il problematico ricambio di ufficiali e truppa con i complementi, e sul piano tecnico, il già ricordato manchevole apporto dell’artiglieria, per le carenze quantitative, qualitative e di impiego tattico, l’imprevisto gran consumo di munizioni e il confuso approvvigionamento delle stesse ponevano quesiti ineludibili al Comando supremo e ai responsabili politici. L’esercito imperiale aveva problemi in parte diversi, ma non meno pregiudizievoli della sua tenuta nella guerra: era riuscito a bloccare, e ciò non era scontato nel maggio 1915, la via d’accesso meridionale all’Impero, rendendo praticamente insuperabile una linea difensiva dapprima precariamente allestita. Ma i comandi erano certi che la semplice difensiva non potesse consentire di resistere indefinitamente. In questo senso, le controffensive contro le posizioni italiane davanti a Gorizia del 14 e del 24 gennaio 1916, condotte con azioni di sorpresa e contenute soltanto a gran fatica, potevano significare la prova di un nuovo e meno passivo atteggiamento tattico.

A.V.

  • Bibliografia
    A. Sema, La Grande Guerra sul fronte dell’Isonzo, 3 voll., Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1995-1997; R. Bencivenga, La campagna del 1915, Gaspari, Udine 2015.
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  • Crediti immagini
    Cartina di Franco Cecotti; Fototeca Consorzio Culturale del Monfalconese

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