I compiti strategici delle armate italiane erano stati definiti da tempo, assegnando alla I armata (posizionata dallo Stelvio alla Val Cismon) il ruolo difensivo ad ovest del saliente trentino; alla IV armata (dal Cismon al Peralba) un ruolo attivo tra Trentino (verso Dobbiaco) e Carinzia, con il compito di svolgere la funzione di ala sinistra dello schieramento italiano e di dare inizio all’intera operazione offensiva della guerra; alla Zona Carnia (dal Peralba al Montemaggiore), l’azione verso Tarvisio e il concorso all’offensiva nella bassa Carinzia; alla II e alla III armata, il ruolo di irruzione oltre l’Isonzo e di penetrazione all’interno dello schieramento austro-ungarico. Sul fronte friulano le prime operazioni del conflitto, lungamente meditate e revisionate nella pianificazione del capo di Stato Maggiore del Regio esercito alla luce degli sviluppi negli eventi politico-militari (Direttive in data 1° settembre 1914, Varianti del 1° aprile 1915, Ordine d’operazioni n. 1 del 16 maggio 1915), avrebbero visto per la Zona Carnia l’azione contro gli sbarramenti di Malborghetto e la puntata verso Tarvisio lungo la valle del Fella. L’iniziativa della più potente delle armate, la II, sarebbe stata rivolta verso Tolmino ‒ con l’avanzata nella conca di Caporetto e l’occupazione della dorsale che da Monte Nero porta al Mrzli Vrh, in unione con la concomitante manovra di copertura dell’area di Plezzo ‒ e verso Gorizia. A sud infatti l’ala destra dell’armata si sarebbe posizionata davanti alle alture che ad occidente difendevano Gorizia. La marcia di avvicinamento della III armata al Carso attraverso la Bassa friulana invece avrebbe proceduto attraverso la convergenza tra Judrio, Torre e Isonzo, verso il rilievo di Medea e il monte Quarin, mentre più a sud sarebbero stati rapidamente occupati i ponti di Pieris per permettere il superamento del maggiore ostacolo fluviale. A riscontro, ancora il 20 maggio 1915 i comandi austriaci vedevano l’Isonzo come una linea d’arresto atta a guadagnar tempo e consentire la copertura della radunata, in previsione di una battaglia d’incontro nelle pianure danubiane. La conversione offensiva partiva pertanto da nord, e si irradiava su tutto il fronte. Questa operazione di avvicinamento e di approccio alle difese del nemico («primo sbalzo»), secondo l’Ordine d’operazioni n. 1 del 16 maggio, era da compiersi con «energica ed improvvisa irruzione». Tuttavia, due soli corpi d’armata italiani, il 24 maggio, erano pronti sul luogo della radunata ‒ altri sei lo sarebbero stati nei tre giorni successivi ‒ con due divisioni di cavalleria. L’artiglieria d’assedio non fu pronta a battere gli sbarramenti della Carnia ed iniziò le operazioni, inconcludenti, venti giorni dopo. Nell’alto Isonzo, la conca di Caporetto fu conquistata di slancio ma il Monte Nero e il Mrzli furono trovati presidiati e gli attaccanti si arrestarono; fallirono gli assalti subito portati alle difese austriache. La III armata, che doveva raggiungere le posizioni da sud di Gorizia al mare, operò all’inizio con un solo corpo d’armata e le due divisioni di cavalleria, ritenute necessarie per l’occupazione dei ponti, la ricognizione e l’avanscoperta in una zona aperta come quella del basso Isonzo. Ma trovò i ponti sull’Isonzo distrutti, e più oltre il terreno allagato dagli austriaci con la rottura delle chiuse del canale irriguo de Dottori. Al di là di questo, le operazioni furono condotte con esasperante cautela e lentezza di movimento. Gettati infine i ponti ai primi di giugno e superato il fiume, quindi ripresa l’avanzata verso il Carso sulla direttrice Sagrado-Monfalcone, iniziò il giorno 7 anche l’avvicinamento della destra della II armata alla linea Sabotino-Piuma-Oslavia-Podgora, preludio all’investimento di Gorizia. Anche in questo caso il tentativo di occupare le creste con furibondi assalti non portò ai risultati voluti. In sostanziale concomitanza, a nord di Gorizia reparti della stessa grande unità avevano operato il passaggio dell’Isonzo a Plava, dove era stata aperta una testa di ponte il cui consolidamento tuttavia rimase sempre precario. Nella prima decade di giugno si sviluppò l’accostamento alla zona pedecarsica in direzione del Monte Sei Busi e di Monfalcone verso Doberdò. Nel primo come nel secondo caso gli italiani dovettero arrestarsi sulle falde dell’altopiano di fronte a una resistenza che sempre più si irrigidiva. L’Ordine di operazioni dell’11 giugno invitava le armate a consolidare le conquiste e ad insistere nell’azione nelle zone di competenza, in particolare davanti a Gorizia e nella fascia pedecarsica da Sagrado al mare. L’ardita presa del Monte nero da parte degli alpini, il 16 giugno, incoraggiò Cadorna a rinnovare gli sforzi offensivi un po’ su tutto il fronte, con azioni di sfondamento o dimostrative. Su queste basi ebbe origine la «prima battaglia dell’Isonzo», che iniziò il 23. Con lo sbalzo iniziale la resistenza avanzata austriaca era stata superata, ma un’idonea base di partenza preliminare per le successive operazioni strategiche non era stata raggiunta, tantomeno era stato conseguito l’obiettivo di aprire la strada all’irruzione nell’interno della Monarchia. L’esercito imperiale, nel frattempo, aveva riordinato lo schieramento su posizioni dominanti. Altrove non era andato molto diversamente. Sul fronte trentino, la I armata aveva proceduto con impulso, ma le operazioni richiestele, di tipo difensivo, non consentirono altro che un perfezionamento delle posizioni. Su quello della IV armata le operazioni contro gli sbarramenti austriaci sul saliente tridentino si arenarono, né ci si poté inoltrare come sperato lungo la valle del Gail, per la forte resistenza delle divisioni austriache sorrette dall’Alpenkorps tedesco e da milizie irregolari esperte conoscitrici dei luoghi. Le carenze del parco d’artiglieria d’assedio, la disorganizzazione nella mobilitazione e radunata, la dispersione delle forze, la molteplicità degli obiettivi e la mancanza di un baricentro offensivo, la cautela strategica avevano spuntato la forza del «primo sbalzo offensivo».
A.V.