Guerra di posizione sul Carso

Guerra di posizione sul Carso

Le più recenti esperienze belliche, in particolare quella anglo-boera (1899-1902) e russo-giapponese (1904-1905), avevano mostrato l’efficacia delle moderne armi a tiro celere in unione con le fortificazioni improvvisate. Il pensiero militare europeo, pur studiando con attenzione quegli avvenimenti, non aveva colto la portata di questi risvolti tecnico-tattici, ritenendoli espressione di guerre lontane, periferiche, legate a circostanze geografiche e strategiche marginali. Nelle pianure europee, si riteneva, i conflitti sarebbero stati decisi da battaglie risolutive (come Sadowa o Sedan), decise dalla massa e dalla manovra e, in sede tattica, dallo slancio dell’attacco frontale. Il modello d’esercito, la conduzione strategica e la stessa tattica che tutti gli Stati avevano adottato erano forgiati per una guerra di tal genere, di movimento e di breve durata. Le vicende del primo anno della guerra tra le nazioni smentirono convinzioni così lungamente maturate, imponendo lo schema della guerra di posizione, statica, fondata sul predominio delle risorse materiali, e obbligando gli stati maggiori, nella conduzione del conflitto, a un affannoso adattamento della tattica, dell’organica e della tecnologia. Il primo incontro del Regio esercito con le nuove modalità della guerra, rispetto alle quali era impreparato nonostante gli insegnamenti giunti dagli altri fronti, ebbe luogo soprattutto con il tentativo di oltrepassare il bordo carsico nel giugno del 1915. Le truppe italiane, che avanzavano sul terreno scoperto in dense formazioni, vennero respinte dai soldati austro-ungarici riparati in trinceramenti allestiti frettolosamente, in una corsa contro il tempo: scavi non molto profondi nella argillosa terra carsica e nella roccia, preceduti da una distesa di filo spinato e altri ostacoli e protetti da sacchi di terra e parapetti di pietra, abbattute di alberi e talora, nei punti più scoperti, da protezioni di calcestruzzo. A ritroso, collegata alla prima linea, si levava una linea fortificata di resistenza, dotata anche di opere in cemento e con blindature, e ancor più indietro stavano le retrovie con i ricoveri, prima di fortuna poi incavernati, i posti comando, i depositi, gli ospedaletti da campo, i centri di smistamento. Nella zona retrostante era distribuita l’artiglieria, spiegata secondo il calibro e la gittata. A quel tempo, la linea austriaca non era continua e tantomeno costruttivamente omogenea. I tentativi italiani di scardinare la rete dei reticolati, con l’esplosivo («pertiche giapponesi», tubi di gelatina) o i mezzi meccanici (pinze), si rivelarono inutili. Le mitragliatrici bene appostate e l’artiglieria campale rendevano difficile, se non impossibile l’occupazione delle fortificazioni. Se la posizione avversaria era conquistata, ma non consolidata con l’arrivo di riserve, difficilmente poteva essere tenuta di fronte al contrattacco avversario o al fuoco di repressione o distruzione dell’artiglieria nemica. La tattica dell’assalto frontale, condotta dagli italiani con prevedibilità e con rigidità d’applicazione e le carenze della preparazione di artiglieria in tutte le offensive del 1915, agevolarono la resistenza dei soldati imperiali nelle fortificazioni provvisorie.
Nel tempo, soprattutto nella pausa estiva e poi in quella invernale, il fronte austriaco venne fortificato con maggior cura, sino ad essere organizzato da una linea di tre paralleli ordini di trincee. La copertura fu impostata sull’interdipendenza tra le difese e su uno scudo meno rigido. Impotenti a superare di slancio il sistema fortificato nemico, anche gli italiani si attaccarono al terreno, pensando in ogni caso ad una soluzione transitoria. Le posizioni raggiunte vennero ottimizzate nel tracciato e rafforzate, come appoggio per le offensive oltre il ciglione carsico, verso l’interno dell’altopiano, e per resistere a possibili contrattacchi. Molti tratti delle trincee italiane si sviluppavano in contropendenza. In realtà, confrontate con il dedalo di trincee del fronte occidentale, frutto di una maggior facilità di scavo, le fortificazioni carsiche e montane sulla linea dell’Isonzo non consentirono lavori altrettanto profondi e complessi, a causa della rocciosa e scabra conformazione orografica. In questo contesto le capacità costruttive ed ingegneristiche delle armi tecniche di entrambi i contendenti, in particolare del Genio italiano, furono messe in particolare risalto.
La configurazione del terreno nel fronte giuliano mostrava molte particolarità. A nord, sulla linea dell’alto e, in parte, del medio Isonzo, l’ambiente montano rendeva difficili i movimenti dei reparti per i dislivelli di quota, ma anche il rifornimento, l’ubicazione, e la stessa efficienza fisica dei combattenti. La guerra in ambiente alpino era caratterizzata da temperature rigide in inverno, dal pericolo di slavine e smottamenti, da diffusi casi di congelamento tra i soldati. Diversa, ma altrettanto disagevole, fu la vita del fante nella zona dell’altipiano del Carso goriziano e monfalconese e, più oltre, di quello della Bainsizza. La situazione fu qui aggravata da operazioni belliche prolungate nel tempo, con un impiego di truppa più largo ed esperienze di guerra di materiale più estese e devastatrici. Oltre che denotato dalle carenze nelle vie di comunicazione, solo in parte rimediate dal lavoro dei reparti tecnici, e dall’aridità e penuria di vegetazione, il territorio degli altipiani era segnato da forti escursioni di temperatura tra giorno e notte e tra le diverse stagioni. La scarsità di risorse idriche della zona carsica imponeva un approvvigionamento difficile dell’acqua, effettuato dalle retrovie attraverso sentieri, strettoie e camminamenti. Questi fattori aggravavano le condizioni dei feriti e agevolavano, assieme alle carenze delle misure profilattiche, la diffusione del contagio di affezioni epidemiche come il colera e il tifo esantematico. Ovviamente, anche in un ambiente così sfavorevole l’adattamento antropico al luogo e la sistemazione dello spazio alla vita di guerra continuarono infaticabilmente, con l’impiego il più delle volte di soluzioni tratte dall’esperienza. Le cornici sassose attorno ai rilievi del terreno fornirono ripari improvvisati; le doline furono utilizzate per le necessità più disparate: luogo di raccolta di reparti e del loro mascheramento, riparo per le riserve, apprestamento difensivo e postazione per artiglierie. Le grotte e le cavità di ogni genere, cui ricorsero entrambi gli avversari, permisero di realizzare ricoveri e posti di comando.

A.V.

  • Bibliografia
    L. Fabi, Gente di Trincea, La grande guerra sul Carso e sull’Isonzo, Mursia, Milano 1994; A. Colla, Grigioverde rosso sangue. Combattere e morire nella Grande Guerra 1915-1918, GoWare, Firenze 2014.
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  • Crediti immagini
    Fototeca Consorzio Culturale del Monfalconese; Archivio Erica Mastrociani - Fabio Todero

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