Darnitsa (campo d’isolamento)

Darnitsa (campo d’isolamento)

Il campo di Darnitsa, come attesta una nota informativa stesa dal comando, fu aperto il primo luglio 1915. Vi funzionava una sezione dei Servizi riservati che procedeva a ulteriori interrogatori dei prigionieri provenienti da Kiev, prima di deciderne l’utilizzo e la destinazione.
Le relazioni periodiche inviate dal suo comandante alla circoscrizione di Kiev ampliano il quadro desolante emerso da alcuni diari e testimonianze di prigionieri italiani. Nel triste recinto di filo spinato, identici furono i disagi sofferti dai nemici della Russia e dai civili della Galizia occupata, considerati e trattati a tutti gli effetti, dal governo zarista, come prigionieri. Darnitsa era anche un campo di punizione per i disertori austriaci e russi. Un confronto tra fonti soggettive e d’archivio consente di comprovare, particolarmente per questo lager, l’ipotesi oggi avanzata sempre più di frequente dagli storici, secondo cui il sistema concentrazionario è nato proprio durante la Prima guerra mondiale. La testimonianza del triestino Emilio Stanta, giuntovi il 4 gennaio 1916, ce ne offre una rara descrizione:
«Avevamo preso una strada lungo la quale percorrevano le rotaie del tram che andavano verso Darniza. In questa località esisteva il grande campo di concentramento per i prigionieri di guerra, dove eravamo arrivati il giorno 4 gennaio del 1916, dopo lunga e tormentata via crucis. Il campo comprendeva una cinquantina di grandi baracche, costruite, come abbiamo visto, sotto terra, con soli i due spioventi del tetto, al di fuori. Ai frontespizi, da un lato vi era una unica finestra e dall’altro la porta d’ingresso, dalla quale si scendeva fino in fondo mediante una scala di legno. Queste “galuppe” erano molto più profonde di quelle dei posti di tappa, e internamente avevano tre piani di tavolato, dove i prigionieri potevano sdraiarsi per dormire. Al centro la solita stufa, più in un angolo il particolare d’un capace bidone, con coperchio per i bisogni corporali dei prigionieri stessi. In ogni galuppa vi era un prigioniero graduato che faceva da capo baracca, tenendo nota degli uomini che arrivavano e di quelli che partivano, restando responsabile della disciplina. Il capo baracca imponeva a due prigionieri a turno, ogni mattina, di andare a vuotare il famoso vaso-bidone. Nel mezzo del campo c’era la palazzina del comando e nei pressi, vicino a certi alti abeti, c’erano le cucine che cuocevano il rancio dentro a quattro grandiose caldaie del diametro di un metro e alte un metro e mezzo. A fianco di tali caldaie erano state appositamente costruite delle scalette in ferro affinché servissero ai cuochi per il rimescolamento della minestra. Nella parte anteriore, ogni caldaia aveva un rubinetto, attraverso il quale usciva l’orzo bollito, che aveva il colore blù, condito in modo che non pareva condito per niente. S’intende che il campo era contornato di filo spinato, alto tre metri, di parecchie file, guardato dalle sentinelle tutte in giro. Per l’invagonamento dei prigionieri che partivano dal campo per lontane destinazioni, esistevano tre binari adiacenti allo stesso, sui quali venivano approntati i treni, che normalmente li portavano in Siberia. Le spedizioni venivano effettuate quando si raggruppava un buon numero di prigionieri, per dare posto a nuovi arrivi dal fronte. Al momento del nostro arrivo, il concentramento non ne aveva che poche centinaia e pertanto le baracche erano quasi vuote. Nella baracca ove prendemmo alloggio, trovammo soltanto cinque uomini dalle parti del Trentino e un polesano che funzionava da capo baracca. Nei giorni seguenti arrivarono altri italiani, raggiungendo la quarantina. Con l’aumentare del numero era aumentata anche la vivacità, nell’antro sotterraneo, dal quale si usciva soltanto per andare a prendere il rancio e per andare a vuotare il famoso bidone, naturalmente chi di spettanza. Solamente quando si faceva vedere il sole ed il freddo lo permetteva, durante i mesi di gennaio e febbraio, si usciva per il campo a prendere un po’ d’aria. Volendo si avrebbe potuto sortire in ogni momento perché non vi era che il freddo ad impedirlo, perciò si preferiva starsene dentro al caldo, facendo passare il tempo giuocando a carte, a chiacchierare, a dormire e anche a cantare, seguendo l’esempio del polesano e di altri istriani canterini, che avendo fatto parte a cori delle cittadine, cantavano sempre e anche molto bene».
Il rapporto inviato qualche giorno prima dal comandante di Darnitsa a quello di Kiev, presenta il campo come un laborioso villaggio austriaco, da cui nessuno intende fuggire:
«Tutta Darnitsa, le strade che ad essa si collegano fino a Brovarskij Shosse nel tratto che si estende fino all’ultimo ponte, pullula di prigionieri. Una volta, verso le 7 del mattino, rientravo a Darnitsa, dopo essermi recato a Kiev ed ebbi modo di osservarli mentre lavoravano tranquilli: un giovane austriaco spaccava diligentemente dei tronchi, per costruire le impalcature della farmacia; più in là un altro, vestito con una giacca da donna, trasportava dei secchi d’acqua sulle spalle; un terzo faceva il cocchiere. Sulla curva due austriaci accesero un fuoco per scaldarsi e subito altri li raggiunsero a piccoli gruppi di due o di tre. La sera, intorno alle 6, ci fu una vera adunata. Tutta la località sembra un sobborgo austriaco, nessuno pensa di fuggire, malgrado non sia affatto difficile».
Nonostante i toni rassicuranti, il documento illustra tuttavia con molta evidenza anche le carenze strutturali e i problemi igienico-sanitari del luogo, aggravati dalla promiscuità. Nel novembre 1915, si progettava la realizzazione di una cucina separata per i prigionieri malati, l’ingrandimento del piazzale, la costruzione di servizi igienici e di una nuova piattaforma che consentisse di separare i prigionieri italiani dagli internati civili. Si prevedeva inoltre l’allestimento di alcune baracche da adibire al servizio religioso e si chiedeva a Kiev l’invio di cappotti per i prigionieri costretti a vivere all’aperto. Nel dicembre 1915, si legge in un altro rapporto, risultando insufficienti le 38 baracche fino allora costruite, parte degli internati alloggiava in alcuni vagoni ferroviari. Al lavoro gratuito nei depositi si sarebbero prestati invece, di buon grado, un gruppo di italiani del Litorale.
La discreta vivibilità del sito era dovuta, in quel periodo, oltre che alla prassi comune a tutti i campi di prigionia di diminuirne il sovraffollamento attraverso continui spostamenti degli internati verso altre destinazioni, alla relativa quiete del fronte in quel periodo. I continui trasferimenti ostacolavano d’altronde il lavoro degli agenti delle Missioni militari in cerca di proseliti per le forze dell’Intesa e quello di registrazione. Quest’ultima risultava fortemente compromessa dalla cronica insufficienza di personale negli uffici di cancelleria. Come ricorda lo Stanta, fuggire non era per niente difficile:
«Nel febbraio 1916, tutti gli italiani erano spariti dalla baracca per paura di finire in Siberia […] Io mi ero ficcato sotto il tetto di una grande latrina dove nessuno poteva trovarmi. Dal nascondiglio potevo vedere il treno e le relative operazioni per la sistemazione dei prigionieri nei carri. Il posto non era dei più comodi, perché dovevo starmene raggomitolato e la puzza mi prendeva il respiro, ma resistetti fino alla partenza del treno, ripresentandomi in baracca e facendomi segnare come nuovo arrivato. La stessa cosa fecero i miei compagni e tutto andò liscio».
Il 12 luglio, Giuseppe De Manincor partecipò alla sfilata di prigionieri predisposta dal comando di Darnitsa per il documentario di propaganda dedicato alla vittoria del generale Brusilov. L’uscita di massa dal lager costituì l’occasione per un altro censimento non meno incerto dei precedenti:
«A conti fatti hanno scoperto che ieri alla parata mancavano solo ottocento prigionieri. Qualcuno dice che sono pochi, altri che sono troppi, per mettersi d’accordo, si ordina un altro censimento. I maligni asseriscono che ciò si faccia anche per pressione dell’ufficio cinematografico, che deve aver trovate alla sua volta troppo brevi le pellicole ieri impressionate. Così nuova uscita dall’accampamento e nuova sfilata; ma cento prigionieri non li trovano egualmente. Del resto è tanto facile qui fare un balzo oltre lo steccato; e fattolo, la Russia è tanto grande!».
Il 12 febbraio tutti gli italiani e una sessantina di altra nazionalità sfuggono alle pressioni politiche degli agenti dell’Intesa e al rischio della dispersione in Siberia e in altre regioni desertiche della Russia asiatica, accettando di andare a lavorare come boscaioli nei dintorni di Černigov presso Oster.

M.R.

  • Bibliografia
    Rossi M., I prigionieri dello Zar. Soldati italiani dell’esercito austro-ungarico nei lager della Russia (1914-1918), Mursia, Milano 1997, pp. 99-102.
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