Alpi Giulie

Alpi Giulie

A inizio Settecento, Casa d’Asburgo ereditò dall’antica dominazione spagnola larghi possedimenti nell’Italia settentrionale. Il Congresso di Vienna del 1815 le assegnò il Regno Lombardo-Veneto, includente il versante meridionale delle Alpi, esteso dalle Prealpi Lombarde alle Alpi Giulie e Dinariche. Con l’annessione di Lombardia (1859) e Veneto (1866) al Regno d’Italia, il confine austro-italiano si spostò verso nord. Le tensioni si concentrarono intorno a Trieste e al suo retroterra fino alle Alpi friulane e al Trentino.
Le Alpi Giulie, limitate da Sella Carnizza e Passo Bogatin, racchiuse tra i corsi del Fella e dei rami sorgentiferi della Sava, ripartite in Occidentale e Orientali dal Passo del Predil, assunsero il valore simbolico di spazio identitario. Le scalate si trasformarono in prove agonistiche dai risvolti politici tra escursionisti italiani e austriaci. Tra questi va ricordato Julius Kugy (1858-1944), uomo di cultura mitteleuropea che in quarant’anni d’ascensioni fornì un contributo considerevole alla conoscenza delle Alpi, dove combatté durante il primo conflitto mondiale in veste di Alpiner Referent. Il confine fra Italia e Austria rimase parzialmente sguarnito fino ai primi anni del Novecento, quando da una parte e dall’altra si diede avvio alla costruzione di un sistema di fortificazioni, non ancora ultimato nel 1915 a causa dell’ampiezza del fronte. Il lato italiano fu interessato dall’erezione di forti e tagliate lungo gli sbarramenti Agno-Assa, Agno-Posina (diviso nei settori di Schio e di Asiago) e Brenta-Cismon. I lavori di muratura in zone d’accesso obbligato e spianatura di elementi utilizzabili come copertura dal nemico vennero sostenuti da genieri militari e civili locali.
Scoppiata la guerra, il processo d’antropizzazione della montagna ricevette straordinario impulso per via delle accresciute esigenze logistiche degli eserciti. I principali settori del fronte giulio furono i gruppi dello Jof di Miezegnot, del Jof di Montasio-Jof Fuart, del Monte Nero e i monti a ovest dell’Isonzo dalla sella Uccea a Tolmino. Iniziate le ostilità, l’esercito italiano si impossessò di parte della catena a sud della Val Canale, inclusa la cima dello Jof di Miezegnot, mentre gli austriaci si attestarono sulla vetta est dei Due Pizzi e sulla Forcella Chianalot, in seguito conquistati da reparti alpini. Gli italiani bombardarono il forte Hensel a Malborghetto, sullo sperone dello Stabet, cardine della seconda linea di difesa austriaca dell’alta Val Fella. La prima passava per il Gugg Berg e il costone di Pazzogna. Dalla cima-chiave del Rombon, gli austro-ungarici difendevano la conca di Plezzo che dava l’accesso a Tarvisio e alla valle della Sava. Il monte consentiva il controllo sui collegamenti della Val Coritenza e del Predil. Fu qui che avvennero i maggiori scontri, ingaggiati dall’appositamente costituito Comando truppe alpine contro il Rombon, alle dipendenze del IV corpo d’armata e composto dai battaglioni Val d’Ellero, Bes e Piazza, operanti prevalentemente sul Ciucla, occupato il 23 agosto 1915. Il 27 e il 28 venne sferrata l’offensiva contro il Monte Rombon, ma i progressi furono di scarso rilievo e la scalata di reparti alpini sulle sue falde ebbe valore episodico, impedita dai lanci di bombe e pietre. Le posizioni sul Ciucla non subirono modifiche fino al 12 febbraio 1916, quando un attacco notturno di un reparto di carinziani scalzò gli italiani, che ripiegarono a mezza costa. Il 4 maggio gli austriaci attaccarono le linee avversarie tra le quote 700-900 e 1583 del Ciucla, venendone respinti. Sette giorni dopo, la cima venne loro strappata. Sfruttando il momento favorevole, il 16 settembre gli italiani sferrarono una nuova offensiva contro il Rombon, risoltasi in un nulla di fatto.
Tra il 15 e il 16 giugno le truppe al comando del colonnello Donato Etna presero invece il Monte Nero − denominato «Picco delle folgori» per la frequenza con cui i fulmini lo colpivano − che, sviluppandosi tra Tolmino e Plezzo, dominava la vallata del medio Isonzo. La prima avanzata si ebbe il 31 maggio, ma le successive spinte furono bloccate. L’11 giugno il Comando austriaco decise di recuperare il terreno perduto, destinando allo scopo sei battaglioni di reduci dalla Galizia. Alpini e bersaglieri tennero il posto e contrattaccarono in direzione di Cima del Potoce, finché il 16 fu realizzata l’integrale conquista del monte. Tuttavia, lo sbarramento delle opposte batterie costrinsero a trasformare quel tratto di fronte da offensivo in difensivo. Consolidata la posizione, il 6 luglio le forze del capitano Vincenzo Allisio tentarono l’assalto di quota 2163 del Monte Rosso, partendo dallo sperone di quota 2150 precedentemente raggiunto, ma difficile da presidiare per il fuoco di fila che subiva dall’alto. La fallita operazione fu replicata con successo il 21, che portò alla presa definitiva del monte, causando 6 morti e 12 feriti tra gli ufficiali, 235 morti e 528 feriti tra i soldati semplici. Gli austriaci contarono nella stessa giornata 3 morti e 14 feriti tra gli ufficiali, 279 morti, 518 feriti e 63 dispersi tra i soldati. Da allora fino all’ottobre del 1917, attacchi e contrattacchi rettificarono poco significativamente le dislocazioni avversarie. In seguito alla rotta di Caporetto la linea di difesa italiana indietreggiò fino al Piave e le Alpi uscirono dal principale teatro di guerra. Un anno dopo le sue vallate furono percorse a ritroso dagli imperiali sconfitti.

L.G.M.

  • Bibliografia
    A. Valori, La guerra Italo-Austriaca 1915-1918, Bologna, Zanichelli, 1925; La Grande Guerra sulle Alpi Giulie, Trieste, Società Alpina delle Giulie, 1968; A. Scrimali, F. Scrimali, Alpi Giulie. Escursioni e testimonianze sui monti della Grande Guerra, Trento, Panorama, 1995; L. Malatesta, La guerra dei forti. Dal 1870 alla Grande Guerra le fortificazioni italiane e austriache negli archivi privati e militari, Chiari, Nordpress, 2003. M. Cuaz, Le Alpi, Bologna, Il Mulino, 2005.
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  • Crediti immagini
    Archivio Storico Dal Molin; Archivio Storico Dal Molin (Collezione Minto)

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