Dal maggio 1915 all’ottobre 1917 Udine assunse il ruolo di «capitale della guerra». Capoluogo più vicino al fronte carsico e sede dello Stato maggiore dell’esercito, la città si trasformò in avamposto militare, con palazzi e abitazioni adibiti a uffici e magazzini. Il re, che stabilì la residenza poco distante, era una presenza fissa che riceveva delegazioni alleate, consultava Cadorna e visitava i feriti. Essendo divenuta snodo di traffici, passaggio di combattenti che tornavano dalle prime linee, approdo di famiglie di ufficiali, il Comando fu costretto a intervenire per disciplinare il flusso di mezzi e persone, la mobilità e i consumi. Il 2 giugno 1915 il generale Frugoni restrinse l’accesso alla città e vietò i rapporti con le popolazioni d’oltreconfine. Seguì il «bando Cadorna» che impose l’uso di documenti identificativi. Le piccole imprese commerciali beneficiarono dell’impennata demografica e dell’accelerazione dei ritmi di vita, sorsero caffè, osterie e proliferò la prostituzione clandestina. Crebbe la necessità d’approvvigionamento, ostacolata da una rete di comunicazioni inadeguata su cui si intervenne con migliorie e trasformazioni. La giunta comunale adottò provvedimenti eccezionali per fronteggiare il mutato stato di cose, procurando vitto e alloggio ai profughi, disponendo l’accoglimento presso strutture sussidiarie dei figli dei richiamati, cooperando con la Prefettura per impiegare i disoccupati e con l’autorità militare per dispensare dalla chiamata alle armi i vigili del fuoco e gli agenti daziari, utili per la tutela del territorio. A coronamento di questo sforzo fu eretto il Comitato generale di assistenza civile, col compito di unificare le varie iniziative a favore dei soldati e dei loro parenti. Il centro friulano fu bersaglio di decine di incursioni aeree nemiche. Nonostante un’ordinanza per l’oscuramento delle luminarie pubbliche e private, l’installazione di un segnalatore acustico e la presenza di una squadriglia che perlustrava lo spazio aereo cittadino, in due anni di bombardamenti si contarono circa quaranta morti e altrettanti feriti. I danni architettonici furono gravi, quantificati in tre milioni e centomila lire dalla Commissione reale d’inchiesta istituita nel dopoguerra. Col prolungarsi del conflitto crebbe il numero degli ospedali, dove, oltre a infermiere e crocerossine, prestarono servizio signore dell’alta borghesia.
La disfatta di Caporetto dell’ottobre del 1917 causò l’abbandono del Friuli e l’arretramento del fronte italiano su una linea difensiva che andava dal Piave al Grappa. Il 28 ottobre Udine cadde in mano austriaca provocando un esodo considerevole. Paralizzato l’ente comunale, sorse un Comitato provvisorio che funse da raccordo con le forze d’occupazione. Le conseguenze economiche furono disastrose per tutta la regione. La popolazione fu spogliata di prodotti agricoli e materie prime e le industrie messe sotto controllo dagli occupanti. Al termine di un anno di duro regime segnato da requisizioni e violenze, sconfitto l’Impero asburgico, il 3 novembre 1918 i primi reparti di cavalleria entrarono a Udine. Il 7 si riunì l’amministrazione comunale tornata dall’esilio. Non mancarono polemiche verso il Comitato Provvisorio e, in generale, coloro che avevano scelto di restare, reputati traditori e «austriacanti». Dopo una guerra che aveva depresso l’economia e devastato materialmente la città, passata dai 40.000 abitanti del 1915 ai 7000 del 1918, iniziò la ricostruzione.
Sotto il fascismo vi fu eretto il Tempio Ossario, che accolse le salme di 25.000 caduti nel teatro di battaglia del Friuli Venezia Giulia.
L.G.M.