Sacerdoti reggenti

Sacerdoti reggenti

L’occupazione italiana di parte della Contea di Gorizia e Gradisca e l’allontanamento dei sacerdoti internati pose il problema della loro sostituzione, nei casi in cui le parrocchie non rientrassero tra quelle evacuate, per assicurare la cura delle anime, l’amministrazione dei beni e la tenuta dello stato civile, compito che in Austria era riservato ai parroci. Della questione si occupò inizialmente l’arcivescovo di Udine mons. Antonio Anastasio Rossi, che provvide, con il consenso della S. Sede e in costante rapporto con il Segretariato generale per gli affari civili, alla nomina di reggenti parrocchiali, attingendo per lo più a sacerdoti della sua diocesi che svolgevano il servizio militare come soldati di sanità. Nominandoli, mons. Rossi li sottraeva ai pericoli del fronte e assicurava loro un ruolo più consono alla dignità sacerdotale; al tempo stesso assicurava alle popolazioni delle «terre redente» una cura d’anime ben più stabile di quella offerta dai cappellani militari dei vari reparti presenti sul territorio – che in alcuni casi avevano provvisoriamente sostituito gli internati – e, come sottolineò lo stesso presule, garantita da sacerdoti che in linea di massima conoscevano lingua, usi e costumi dei fedeli loro affidati, poiché provenienti da un territorio contiguo a quello occupato. Mentre il Segretariato era favorevole a questa soluzione, attendendosi dai sostituti un apporto all’opera di integrazione ed «italianizzazione» dei territori occupati che rientrava tra i suoi obiettivi fondamentali, diversa era la posizione della S. Sede, che sottolineò continuamente la provvisorietà delle soluzioni adottate, preoccupata di mantenere una stretta neutralità fra i belligeranti. Il governo austriaco, infatti, fece ripetute pressioni nei confronti del Vaticano, sia direttamente sia tramite l’arcivescovo di Gorizia mons. Sedej, affinché venisse mantenuto il più possibile lo status quo nei territori occupati dagli italiani, a norma delle convenzioni internazionali, ritenendo l’ingerenza dei vescovi finitimi (la questione si poneva anche sul fronte trentino) un vulnus alla propria sovranità sul territorio. Dopo lunga trattativa la soluzione fu trovata a metà settembre 1915, istituendo due vicariati foranei retti da sacerdoti della diocesi di Gorizia – mons. Giuseppe Peteani parroco decano di Cormòns per la zona del Friuli orientale e don Jurij Peternel, parroco decano di Kobarid/Caporetto, per la valle dell’Isonzo ed il Collio settentrionale – posti alle dipendenze del vescovo castrense mons. Angelo Bartolomasi, scelto per il suo ruolo istituzionale. Ai vicari foranei avrebbero fatto capo tanto il clero indigeno quanto i reggenti, che alla fine del 1915 risultavano essere 34 (31 parroci e 3 cooperatori).
La gestione di mons. Bartolomasi non apportò novità di rilievo nelle prassi seguite dai sacerdoti, né nell’organizzazione della rete di reggenti nominata da mons. Rossi, fatte salve alcune nomine successive all’estate 1915, che videro insediati anche sacerdoti provenienti da diocesi di altre regioni italiane. L’operato dei reggenti fu condizionato dallo stato spesso precario in cui versavano edifici e canoniche dalla situazione economica dei benefici – resa problematica dall’assenza di documenti e denaro, dalle devastazioni belliche delle proprietà ecclesiastiche e dalla mancanza di coloni che le coltivassero – nonché dalla particolare situazione della vita nelle immediate retrovie del fronte. La questione principale era costituita dal rapporto con i fedeli, che spesso accolsero con freddezza i nuovi venuti, vuoi per attaccamento ai propri preti internati, vuoi perché vedevano nei reggenti comunque dei rappresentanti di uno Stato nemico. Di fronte a questa realtà la maggioranza di essi adottò uno stile prudente, concentrandosi sull’aspetto religioso del proprio mandato e cercando di aprire un dialogo con i fedeli, cosa che in diversi casi – superata la diffidenza iniziale – riuscì. Questa linea però li pose in contrasto con le aspettative del Segretariato e dei comandi militari, che si attendevano da loro un’opera di persuasione patriottica della popolazione, una divergenza di vedute che portò in qualche caso alla rimozione dei reggenti. D’altro canto quei sacerdoti che si profondevano in prediche patriottiche – come don Celso Costantini, reggente di Aquileia – spesso ottenevano l’approvazione dei comandi militari, ma l’indifferenza se non l’ostilità dei fedeli, che si traduceva in una diserzione dalle funzioni liturgiche.
L’esperienza dei reggenti ebbe termine per quasi tutti con la rotta di Caporetto; i pochi che per vari motivi non seguirono le truppe nella ritirata furono per lo più internati nell’Impero asburgico. Finita la guerra solo alcuni degli ex reggenti vennero reimpiegati nelle loro vecchie sedi e per un tempo generalmente breve, dato che il rientro dei sacerdoti già profughi in Austria, prima, e del clero internato, poi, rese non più necessario il loro operato.

P.M.

  • Bibliografia
    P. Malni, L’operato di monsignor Rossi e dei reggenti nell’Isontino (1915-1918), in «Metodi & Ricerche», n.s., 1987, n. 2, pp. 44-76; I. Portelli, Pastore dei suoi popoli. Mons. Sedej e l’arcidiocesi di Gorizia nel primo dopoguerra, Consorzio Culturale del Monfalconese - Associazione «Adriano Cragnolin», Ronchi dei Legionari - San Pier d’Isonzo 2005.
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