L’impatto devastante della Prima guerra mondiale sul territorio dell’Arcidiocesi di Gorizia comportò numerose conseguenze che colpirono pesantemente la popolazione civile e coinvolsero direttamente anche i sacerdoti, sia che fossero rimasti ad esercitare il ministero pastorale nelle retrovie del fronte – in un difficile equilibrio tra bisogni della residua popolazione civile ed esigenze delle truppe stazionanti sul territorio – sia che avessero dovuto abbandonare la propria sede, evacuati assieme ai propri fedeli o colpiti da provvedimenti di internamento.
Gli internamenti avvennero in buona parte nei primi giorni di guerra, subito dopo l’arrivo delle truppe italiane nelle varie località, e furono disposti dai comandi dei reparti occupanti; in seguito le decisioni vennero prese di concerto con il Segretariato generale per gli affari civili. I sacerdoti internati nel territorio diocesano occupato dagli italiani fra 1915 e 1917 furono 59, su 80 presenti in sede all’arrivo delle truppe, in obbedienza alle direttive dell’arcivescovo Sedej, che dispensavano dall’obbligo della residenza solo in caso di evacuazione o fuga in massa della popolazione o per pericolo di vita. Gli internamenti colpirono oltre l’85% dei sacerdoti rimasti in sede nel Friuli orientale, circa il 50% nelle aree prettamente slovene.
Nei carteggi tra le diverse autorità coinvolte nella vicenda le motivazioni più frequenti degli internamenti risultano essere i sospetti di spionaggio, i comportamenti ostili nei confronti delle truppe italiane, i sentimenti austriacanti e l’appartenenza al partito cattolico popolare friulano guidato da mons. Faidutti, mentre il clero sloveno era accusato per lo più di filo-slavismo. Quanto alle prime, la labilità degli indizi citati le fanno apparire strumentali al vero obiettivo degli internamenti, quello di far uscire di scena quanti potevano essere d’ostacolo alla collaborazione della popolazione nei confronti delle truppe italiane e, soprattutto, all’opera di integrazione delle «terre redente» nella realtà italiana. A indicare il clero e gli esponenti del movimento cattolico come obiettivo furono sia inchieste giornalistiche dell’anteguerra che le note dei servizi d’informazione italiani, aventi entrambe le proprie fonti negli ambienti dell’irredentismo giuliano, che colsero l’occasione di sbarazzarsi dei loro più agguerriti avversari; il ruolo dei liberal-nazionali locali è confermato dalla percentuale molto più alta di internati tra il clero del Friuli orientale rispetto a quella delle zone slovene.
Gli internati, dopo brevi periodi di reclusione a Palmanova o Udine, vennero trasferiti all’interno della penisola, inizialmente in parte posti in stato di detenzione a Firenze o Cremona. Una volta messi a piede libero, vennero internati nelle più svariate località italiane, con particolare concentrazione in Piemonte, Toscana, Campania, Sicilia e Sardegna, dove vissero in una condizione di confino, in situazioni materiali spesso disagiate, per loro fortuna spesso aiutati da confratelli – parroci, vescovi o frati che fossero – e a volte impiegati in qualche incarico ecclesiastico, ma guardati con sospetto dalle autorità che avevano il compito di sorvegliarli e sottoposti varie restrizioni della libertà personale.
Numerosi furono i tentativi messi in atto da singoli o da gruppi di preti internati – nonché dalla S. Sede, cui si rivolsero sia il governo austriaco che il vescovo di Gorizia mons. Sedej – di ottenere la revoca dei provvedimenti o, dopo Caporetto, il rimpatrio nei territori austriaci, ma si scontrarono sempre con l’opposizione del governo italiano, del Segretariato e dei comandi militari di volta in volta interpellati. L’ostilità al loro rimpatrio si protrasse a lungo anche dopo la fine della guerra, tanto che molti dovettero attendere l’estate autunno del 1919 per rivedere le proprie terre, spesso destinati a parrocchie diverse da quelle precedenti, misura volta a spezzare il legame tra le comunità e i preti, il cui rientro era considerato un ostacolo all’affermazione dello Stato italiano, e delle forze politiche «nazionali», nelle terre ormai «redente».
Al di là delle ripercussioni morali e materiali sui singoli sacerdoti degli internamenti, vissuti come un’offesa alla propria dignità sacerdotale, anche per le modalità degli arresti e le condizioni della detenzione, vanno sottolineate le conseguenze che i provvedimenti ebbero sul successivo operato del clero, che nel dopoguerra in buona parte si defilò dall’attività politica, contribuendo alla crisi del movimento cattolico.
Meno noti e numerosi, ma non meno significativi, sono i casi di sacerdoti internati dalle autorità asburgiche, per motivi analoghi e speculari a quelli citati in precedenza. I preti sottoposti ad un vero e proprio internamento furono 7, due sloveni operanti nel Carso sospetti di tendenze panslaviste, gli altri sacerdoti regnicoli che svolgevano il loro ministero nel Friuli austriaco. A questi vanno aggiunti alcuni casi di preti sloveni nelle retrovie del fronte e sui quali le autorità militari condussero inchieste o aprirono procedimenti giudiziari, costringendo talvolta l’arcivescovo Sedej a trasferirli onde evitare conseguenze più gravi. Il periodo di detenzione dei sacerdoti internati in Austria fu in genere breve e nella maggior parte dei casi si tramutò in forme di confino.
P.M.