I primi massicci spostamenti di popolazione pianificati dagli Stati europei a causa di eventi bellici si verificarono durante le Guerre balcaniche del 1912-13. Il fenomeno raggiunse però una clamorosa consistenza nella Prima guerra mondiale sia all’esplosione del conflitto che durante i combattimenti e dopo la fine delle ostilità. A Trieste i primi a partire furono i cittadini dei paesi che stavano per diventare nemici dell’Impero, che rischiavano di essere qualificati come elementi pericolosi e di essere pertanto internati in campi di prigionia. Anche molti degli oltre 30.000 immigrati in città dal Regno d’Italia lasciarono il porto asburgico a partire dall’estate del 1914. Alla fine del maggio 1915, i poco meno di 14.000 italiani rimasti a Trieste vennero arrestati. Circa 3000 furono successivamente avviati all’internamento, 1900 al confino e 9000 furono rimandati oltre frontiera. Nell’intera regione del Litorale Austriaco, dovettero poi lasciare le loro case tutti coloro che vivevano in quelli che sarebbero diventati i campi di battaglia. Nel complesso, nel corso della guerra, ben 130-140.000 cittadini del Litorale furono ospitati in campi profughi allestiti all’interno dell’Austria, che si sommavano ai 350.000 profughi provenienti dal fronte orientale e ai 60-70.000 del Trentino e del Sud Tirolo. Il più noto dei campi di accoglienza per gli italiani fu predisposto a Wagna, in Stiria, che da solo arrivò a ospitare oltre 20.000 persone. Nel maggio del 1915 furono dunque letteralmente deportati su treni bestiame, con un preavviso che andava dai pochi giorni alle poche ore, gli abitanti di Monfalcone e delle aree limitrofe, e quelli di tutta la valle dell’Isonzo fino a Caporetto e poi lungo tutta l’area di confine con l’Italia sino in Trentino. Gorizia fu invece esclusa, in quanto la strategia austro-ungarica fu quella di usare i civili rimasti in città come deterrente rispetto all’offensiva italiana. Anche tutto il sud dell’Istria fino a Rovigno era stato evacuato: Pola era infatti piazzaforte della marina asburgica e le autorità militari ne avevano ordinato una parziale evacuazione sin dall’estate 1914. L’operazione di evacuazione dell’Istria meridionale, comunque, fu del tutto inutile perché la Prima guerra mondiale non coinvolse mai la penisola, tanto che a partire dalla primavera del 1916 la popolazione fu lentamente autorizzata a farvi ritorno. Ritorni più consistenti avvennero comunque dopo la disfatta di Caporetto e lo spostamento al Piave del fronte di guerra. Inoltre chi fu obbligato a partire, riteneva che si sarebbe allontanato da casa solo per pochi giorni, al massimo qualche mese, e molto spesso non aveva portato con sé nemmeno un vestiario adeguato.
Nei campi profughi la situazione sanitaria e alimentare fu molto difficile; l’affollamento e la promiscuità furono un problema costante. Frequenti le epidemie di tifo e di colera e altissima la mortalità infantile. Al loro ritorno, gli abitanti delle zone colpite dai combattimenti trovarono un territorio devastato, quasi irriconoscibile, mentre gli abitanti dell’Istria dovettero fronteggiare le carestie e i problemi dovuti all’abbandono dei campi e alla cronica mancanza di manodopera. Fatto ancora più drammatico, le esperienze maturate dagli Stati nel 1914-18, furono riprese durante il secondo conflitto mondiale, in cui la questione delle deportazioni e degli esodi esplose con drammatica brutalità, coinvolgendo decine di milioni di persone.