Elemento che connota il carattere di totalità che assunse la Prima guerra mondiale e al tempo stesso esordio su grande scala di un fenomeno che sempre più ha accompagnato i conflitti del Novecento e le guerre contemporanee, gli sgomberi forzati e le fughe collettive della popolazione civile ebbero una dimensione europea. Dal Belgio alla Galizia, dai Balcani alla Prussia orientale, dal Trentino al fronte dell’Isonzo, più di 13 milioni di persone dovettero lasciare le proprie terre come conseguenza del conflitto.
Dal fronte italiano giunsero nell’Impero almeno 240.000 cittadini austriaci di nazionalità italiana, slovena e croata, parte delle centinaia di migliaia di profughi della Monarchia. Gli italiani dal Litorale furono almeno 75.000 (una buona metà dal Friuli orientale, gli altri dall’Istria), altrettanti i trentini, non meno di 70.000 gli sloveni dal fronte dell’Isonzo e circa 20.000 i croati dall’Istria meridionale, ma una quantificazione precisa non è possibile per l’incompletezza dei dati.
In Austria già dal 1914 il governo si accollò l’onere dell’assistenza, considerata però una concessione discrezionale e non un diritto dei profughi. Il ministero dell’Interno assunse le principali competenze in materia, gestendo direttamente o attraverso il suo apparato periferico la vita dei profughi. Altri interventi (comitati di assistenza, amministrazioni provinciali) vennero ammessi solo se subordinati alle politiche statali, miranti a rafforzare i legami popolazioni/stato. Ad assistere i profughi furono anche, nonostante i limiti posti dal governo, i sacerdoti che accompagnarono i propri fedeli nell’esodo e il Comitato di soccorso per i profughi del Meridione.
Una volta giunti nelle regioni interne dell’Impero (Stiria, Austria Inferiore, Boemia e Moravia) i profughi classificati come «abbienti», in grado di mantenersi da sé, venivano lasciati liberi di fissare la propria dimora, al di fuori della zona di guerra e di alcune città «chiuse ai profughi». Degli altri – i «privi di mezzi» – la maggioranza fu dispersa a piccoli gruppi nei vari comuni della Monarchia (la cosiddetta «diaspora»). Tra gli appartenenti a questo gruppo, ai quali veniva corrisposto un sussidio giornaliero, furono di norma inseriti operai e artigiani, inviati nelle aree industriali ove c’era necessità di manodopera. La parte rimanente, per lo più anziani e donne con prole numerosa, venne mantenuta in natura nei campi profughi (Barackenlager o Flüchtlingslager). La residenza nei comuni della diaspora e nei Barackenlager, anche se non formalmente, era di fatto obbligata, dato che la concessione dei sussidi ed altre forme di assistenza era legata alla dimora nei luoghi stabiliti dalle autorità. I profughi costituirono inoltre una riserva di manodopera a basso costo da impiegare in agricoltura e nelle aree industriali, anche grazie a misure che introducevano forme di coazione al lavoro; attività produttive sorsero pure nei campi profughi. L’assunzione di un lavoro, benché sottopagato, consentiva ai profughi di migliorare le proprie condizioni; per chi viveva nei campi era un presupposto quasi indispensabile per potersi trasferire nella diaspora.
Le condizioni di vita dei profughi in Austria furono dure, contrassegnate da privazioni materiali e sofferenze morali. Se la sorte peggiore toccò agli abitanti dei campi profughi, anche nella diaspora i profughi si trovarono di fronte a scarsità di generi alimentari e di vestiario, alloggi fatiscenti, insufficienza dei sussidi, soprusi delle autorità locali e contrasti con le popolazioni ospiti. Se si verificarono diversi casi di solidarietà, altrove i profughi, anche a causa delle diversità culturali e linguistiche, divennero il capro espiatorio del malcontento delle popolazioni della Monarchia colpite dalle conseguenze del conflitto. Privazioni e vessazioni spinsero i profughi ad inoltrare alle più diverse autorità lettere di supplica, ma anche di denuncia, mentre nei campi si verificarono diversi episodi di protesta, segno di un crescente distacco rispetto alle istituzioni. Solo a partire dalla metà del 1917 la riapertura del Parlamento e le denunce dei rappresentanti delle varie popolazioni coinvolte nel fenomeno portarono all’approvazione di una legge di tutela, che trasformava l’assistenza da concessione a diritto, sanciva la libera scelta del luogo di dimora ed il diritto all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro, modificando almeno parzialmente il modello di gestione autoritario fin lì seguito. La situazione generale della Monarchia era però ormai critica e le vicissitudini dei profughi cessarono solamente con il rimpatrio, avviato dopo Caporetto ma in molti casi terminato solo a 1919 inoltrato, a causa delle devastazioni belliche nelle aree di provenienza.
P.M.