Secondo i censimenti ufficiali, in Italia i profughi delle «terre redente» furono 80.000, 35.000 dal Trentino e 45.000 dal Litorale, ma fra questi furono conteggiati anche i regnicoli espulsi dall’Impero; il numero dei «profughi irredenti» del Litorale dovrebbe aggirarsi sui 30.000, ai quali vanno aggiunti quanti si fermarono nelle retrovie e non furono quindi censiti nel Regno. In assenza di un piano di evacuazione, infatti, inizialmente solo parte dei profughi fu avviata verso i centri di smistamento di Novara, per le regioni del Nord e Firenze per quelle centro-meridionali; gli altri furono sfollati nelle retrovie, dove rimasero per tutta la durata dell’occupazione italiana alcune migliaia di persone.
La gestione dell’assistenza profughi in Italia fu priva di un coordinamento centralizzato fino alla fine del 1917. La competenza in materia venne assunta dal ministero dell’Interno, ed in particolare dalla Direzione generale della pubblica sicurezza, ma la sua attività si limitò a lungo all’emanazione di indicazioni di massima e ad una generica supervisione dell’operato di prefetture ed enti locali, cui fu demandata l’attuazione dell’assistenza. Ciò portò ad una delega di fatto di molte funzioni a comitati sorti ad hoc o associazioni benefiche, che non solo distribuivano aiuti o raccoglievano fondi, ma assunsero anche la gestione di ricoveri ed altre forme di assistenza. Tra questi, organizzazioni operanti nel campo dell’emigrazione (l’Opera Pia Bonomelli e la Società Umanitaria di Milano), istituzioni culturali e patriottiche come la Dante Alighieri, ma soprattutto associazioni nate nell’ambito dell’emigrazione politica irredenta, prima fra tutte la Commissione centrale di patronato dei fuorusciti adriatici e trentini, sorta a Roma nell’aprile 1915 e presieduta da Salvatore Segrè, che fungeva da organo di collegamento tra gli altri comitati.
Il flusso di profughi dal Trentino e dal Vicentino causato dalla Strafexpedition del maggio 1916 convinse il ministro dell’Interno Orlando a cercare di uniformare l’assistenza profughi, emanando nel luglio 1916 una circolare che disponeva la nomina di commissioni prefettizie, con il compito di ispezionare colonie e comuni di insediamento dei profughi, rilevare le carenze e proporre i possibili rimedi. Nonostante alcuni miglioramenti, continuarono a verificarsi disparità di trattamento, confusione nelle competenze ed altri inconvenienti e solamente l’afflusso nel Regno dei 480.000 profughi friulani e veneti provocato dalla la rotta di Caporetto fece della questione profughi un’emergenza di rilievo nazionale. Nel novembre 1917 nacque l’Alto commissariato per i profughi di guerra, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, che avrebbe dovuto centralizzare la gestione dell’assistenza; ciò avvenne solo parzialmente e sovrapposizioni di competenze e mancanza di uniformità nell’attuazione delle norme continuarono a rendere più difficile la vita dei profughi.
Il governo scelse di distribuire i profughi lungo tutta la penisola, per attutire le conseguenze economiche e sociali della loro presenza, ma anche per favorire la loro integrazione. Una parte dei profughi venne mantenuta dallo Stato in colonie (in genere non oltre le 2-300 persone), utilizzando strutture riconvertite all’uso come ex conventi, scuole o caserme. Tra le poche colonie di maggiori dimensioni destinate ai profughi del Litorale, l’Asilo profughi di Cordenons, gestito dal Segretariato generale per gli affari civili, che ospitò 700 profughi sloveni, l’Asilo profughi di Firenze, retto dalla Commissione di patronato per i profughi italiani d’oltre confine, che accolse numerosi evacuati del Friuli orientale e dopo Caporetto divenne uno dei centri di smistamento più importanti per i fuggiaschi friulani e veneti, la colonia di Diano Marina, dove in diversi edifici vennero ricoverati circa 1300 profughi sloveni; nel 1917 fu istituita una colonia marina a Montenero di Livorno per bambini e donne di Gorizia. Le colonie in genere garantivano un discreto livello di assistenza (sanitaria, scolastica, ecc.), ma comportavano limitazioni alla libertà personale, oltre ai disagi della vita in comune.
La maggior parte dei profughi fu però dispersa un po’ in tutte le regioni a piccoli gruppi, sistemati spesso in abitazioni private, con le spese di affitto a carico di prefetture e comuni, mentre agli altri bisogni provvedevano i profughi con i sussidi in denaro loro assegnati. Rispetto all’Impero asburgico, in Italia i problemi di approvvigionamento furono minori, anche se l’insufficienza dei sussidi, il caroviveri, le sperequazioni a danno dei profughi e l’esigua quantità di beni (specie di vestiario) che avevano potuto portare con sé incisero negativamente sulle loro condizioni di vita. Nelle fonti ricorrono denunce sull’inadeguatezza degli alloggi, spesso freddi o malsani, sulla difficoltà a procurarsi cibo e vestiario in misura adeguata, sulle condizioni di sfruttamento nei luoghi di lavoro (bassi salari, occupazioni precarie). In parecchi casi pesò anche la diffidenza – talora l’ostilità – con cui venivano percepiti e trattati da autorità e popolazioni locali, anche a causa della mescolanza negli stessi luoghi di profughi e internati, che dava alimento alle accuse di «austriacantismo», né mancarono situazioni in cui misure di sorveglianza e comportamenti discriminatori contribuirono a rendere più amara la loro sorte. Particolare fu la condizione dei profughi sloveni, nei cui confronti questi aspetti pesarono di più, a causa delle diversità linguistiche e culturali che ostacolavano il rapporto con le popolazioni locali; va detto tuttavia che forme specifiche di discriminazione a loro danno furono sporadiche e che materialmente le loro condizioni furono sostanzialmente simili a quelle dei profughi di lingua italiana. D’altro canto vi furono anche esperienze positive, specie dove autorità ed altre personalità (sacerdoti, maestri) favorirono accoglienza e solidarietà, così come vi furono colonie gestite in modo efficiente o casi in cui grazie al lavoro i profughi poterono garantirsi un tenore di vita migliore. Il pensiero dominante per tutti rimase comunque il rientro nelle proprie terre, che poté aver luogo solamente dopo la fine della guerra e in molti casi si protrasse fino a 1919 inoltrato, sia a causa delle devastazioni belliche, sia perché le autorità diedero la precedenza al rimpatrio dall’ex Impero, date le precarie condizioni dei profughi nei territori ex asburgici.
P.M.