«Il 2 settembre ‒ scriveva Silvio Benco ‒ erano arrivati a Trieste i primi feriti. Ne arrivavano dapprima due o tre al giorno; poi una decina; poi qualche decina; poi coi treni, coi piroscafi, ogni giorno, talvolta più di un centinaio in una volta sola». Dopo i primi combattimenti dell’agosto 1914, gli ospedali militari di Trieste cominciarono a ricoverare le vittime della guerra che prima di Natale erano già più di un migliaio. Era un numero che superava di gran lunga la capacità di accoglienza dell’unica struttura gestita direttamente dall’imperial regio esercito, l’ospedale militare di via Fabio Severo, che poteva ospitare fino a 500 posti letto. Il nosocomio era entrato in funzione nel 1868, consentendo alla Caserma Grande di assorbire quella parte dei propri edifici già destinata alle funzioni sanitarie e il cui allestimento risaliva al 1785. I primi reduci dai combattimenti sul fronte russo e su quello balcanico trovarono inoltre assistenza presso l’ospedale approntato nell’albergo degli emigranti della compagnia di navigazione Austro-Americana, che poteva accogliere altri 500 degenti. Ulteriori 80 posti furono messi a disposizione nei locali della Società di ginnastica Eintracht, e 100 letti vennero installati presso la Società Austria, che aveva pure un padiglione per gli infettivi. Quest’ultima categoria di malati poteva anche essere curata all’ospedale civile della Maddalena. I casi più gravi potevano infine essere operati dalle due divisioni chirurgiche dell’Ospedale civico, oggi Ospedale maggiore. Il Lloyd Austriaco, il principale gruppo armatoriale asburgico, mise poi a disposizione due navi ospedale, il «Tirolo» e il «Metcovich», i piroscafi prima ricordati da Benco, che furono affidati all’associazione provinciale della Croce Rossa. Del resto, l’allargamento della capacità ricettiva del sistema ospedaliero triestino esigeva anche un ampliamento degli organici; in questo, ebbe un ruolo fondamentale proprio la Croce Rossa, ente a cui il ministero dell’Interno austriaco aveva affidato la cura dei militari feriti e ammalati. Giulio Ascoli, direttore dell’Ospedale civico e della nuova scuola per infermiere, ebbe poi un ruolo determinante per la formazione del nuovo personale paramedico triestino, sopratutto donne fra i 20 e i 40 anni, per le quali l’impiego nella sanità fu un momento di importante emancipazione. La prima guerra moderna non aveva ferito gli uomini solo nel corpo, ma ne aveva spesso minato anche la salute mentale. Le immani carneficine dei campi di battaglia provocarono traumi profondi in tutti coloro che vi parteciparono. Nuove patologie psichiatriche sorsero insieme all’uso massiccio di nuove armi. La più comune di queste veniva chiamata dagli inglesi shell-schock, una neurosi provocata dalle mitragliatrici. Per tentare di curare queste infermità, a Trieste gli ammalati venivano condotti nel nuovissimo ospedale psichiatrico di San Giovanni, inaugurato pochi anni prima.
Ospedali militari di Trieste
