L’ufficialità italiana

L’ufficialità italiana

Nell’Italia liberale, il ruolo dell’ufficiale di carriera beneficiava di un’alta reputazione nella comune maniera di pensare e nella medietà culturale. Più contrastata era la sua immagine presso il mondo intellettuale, nel quale erano presenti forme di antimilitarismo borghese. Nella letteratura, ad esempio, al pedagogismo patriottico de La vita militare di Edmondo De Amicis si contrapponeva l’antiautoritarismo de Una nobile follia di Iginio Ugo Tarchetti. Comunque sia, nell’opinione pubblica la figura dell’ufficiale era considerata prestigiosa, e come tale particolarmente riconosciuta nella società borghese, benché la remunerazione, soprattutto per i gradi inferiori, non fosse all’altezza di quella delle professioni liberali. Nel tempo, la presenza degli ufficiali provenienti dalle famiglie di nobile casato e di antica tradizione militare, primariamente piemontesi, era diminuita, mentre si era accresciuta l’origine piccolo e medio borghese: per i ceti della piccola proprietà terriera, degli impieghi e delle professioni liberali la carriera militare rappresentava una sicura espressione di miglioramento sociale. A seguire le polemiche della pubblicistica dell’epoca, e nella stessa «Rivista militare italiana», il periodico dell’istituzione militare, l’orizzonte culturale degli ufficiali sembrava essere inadeguato, soprattutto tra i subalterni. Le maggiori lacune nella preparazione tecnica e professionale dell’ufficialità risiedevano invece, a detta dei commentatori, negli aspetti di rigidità dell’azione operativa, nonché nella scarsa autonomia di decisione. Le qualità professionali più alte erano riscontrabili nelle «armi dotte», artiglieria e genio, e nel servizio di Stato Maggiore, nondimeno criticato per le facilitazioni che consentiva nella progressione della carriera. Lo stacco tra la consapevolezza di appartenere ad un mondo élitario e la più prosaica realtà della caserma e della vita di guarnigione incideva non poco sulla saldezza dei quadri. Pesava la previsione, per buona parte degli ufficiali, della lentezza dell’avanzamento, come la certezza della scarsità dell’assegno e dei continui trasferimenti di sede. Questi tratti, confusi con il fardello morale delle sconfitte coloniali che gravava su tutto l’ambiente militare, si condensarono negli anni Novanta in disagio e frustrazione, che, nel decennio successivo, si espressero addirittura in forme di sorda protesta: si parlò addirittura di «modernismo» nell’esercito, in assonanza con il coevo movimento del riformismo cattolico.
Con queste presupposti l’ufficialità italiana entrò nel conflitto, sebbene l’esito della prova libica avesse determinato nell’ambiente un ritrovato senso di fiducia e coscienza patriottica. Alla prova del conflitto mondiale gli ufficiali in servizio permanente misero in evidenza i caratteri di dedizione, attaccamento alla Monarchia, valore personale, capacità tecnica, ma anche, talora, propensione alla gregarietà e allo spirito burocratico, scarsa elasticità d’azione, separazione dalla truppa. D’altro canto, gli ufficiali subalterni affrontarono gli assalti frontali con grande coraggio, guidando i soldati e dando loro l’esempio, nei primi scontri, con uno slancio «risorgimentale». Le perdite furono significative. La mansione dell’ufficiale di truppa passò in maniera predominante agli ufficiali di complemento, perlopiù provenienti dalla borghesia e dai ceti colti. Disciplinato sin dalle leggi Ricotti (1871-76), l’operato di questi quadri in tempo di pace aveva ispirato giudizi discordanti; nel conflitto la loro funzione apparve subito insostituibile. Mossi sovente da una forte spinta ideale, meno inclini alle rigidità dei militari di carriera, più aperti alle esigenze dei soldati, con cui avevano in comune la provenienza civile, a migliaia gli ufficiali di complemento vennero istruiti in corsi di pochi mesi: il titolo di scuola media superiore comportò obbligatoriamente, tra il 1916 e il 1917, la partecipazione ai corsi accelerati. La funzione di coesione nazionale e militare da loro svolta fu rilevante. In termini complessivi il corpo degli ufficiali mostrò un rafforzamento cospicuo durante il conflitto. Nella categoria dei quadri in servizio permanente effettivo, alla fine della guerra gli ufficiali assommarono a 22.500: erano quasi 16.000 nell’agosto 1914. Tra i complementi l’aumento fu ben più considerevole: essi, compresi quelli facenti parte della riserva, allo scoppio del conflitto erano 27.500, ma nel corso della guerra ne furono nominati altri 147.000. Le perdite dell’ufficialità durante la guerra ammontarono a circa 17.000 unità.

A.V.

  • Bibliografia
    A. Visintin, Esercito e società nella pubblicistica militare dell’ultimo Ottocento, «Rivista di storia contemporanea», n. 1, 1987; P. Del Negro, La professione militare nel Piemonte costituzionale e nell’Italia liberale; G. Rochat, Gli ufficiali italiani nella prima guerra mondiale, in Ufficiali e società. Interpretazioni e modelli, a cura di G. Caforio e P. Del Negro, Franco Angeli, Milano 1988.
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    Archivio Erica Mastrociani - Fabio Todero

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