A Trieste, in guerra da quasi dieci mesi, a metà maggio già circolavano notizie contraddittorie, ma allarmanti, su un possibile conflitto con il Regno confinante. Il 23 maggio, domenica di Pentecoste, nel primo pomeriggio si propagò in città la notizia della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia. Rapidamente, nel centro si formarono assembramenti di cittadini, perlopiù provenienti dai quartieri popolari di Cittavecchia, San Giacomo, Barriera. La composizione sociale dei manifestanti includeva, a quel che si sa, elementi lealisti, provenienti per lo più dal ceto impiegatizio, e una variegata rappresentanza di componenti popolari, in cui un nebuloso e prepolitico attaccamento alla dinastia si confondeva con il sentimento di rivalsa sociale: erano giovani e donne, soprattutto. Tale inedita saldatura di forze sociali si tradusse in forme di violenza, esproprio di beni, intimidazioni rivolte a triestini filoitaliani e a forestieri. La folla si scatenò contro i luoghi identificati come centri di identità italiana e irredentismo. La sede del «Piccolo», il quotidiano locale su posizioni liberalnazionali e filo-irredentiste, posto in piazza della Legna (ora Goldoni), fu oggetto di un primo assalto della folla, senza risultato. Non molto distante, una parte dei manifestanti invase e incendiò l’edificio della Lega Nazionale, società attiva nelle attività culturali e ricreative, un altro simbolo di difesa dell’italianità. Devastazioni ebbero luogo, simultaneamente, in altre parti del centro-città. Nel quartiere di San Giacomo fu dato l’assalto ad un ricreatorio della Lega; nel contempo la folla cercò nuovamente di appiccare fuoco al «Piccolo», ancora invano. Lì vicino i dimostranti infierirono allora contro il monumento a Giuseppe Verdi, inaugurato nemmeno due anni prima, preso a martellate e insudiciato. Dopodiché le violenze si accanirono contro la Ginnastica Triestina, sodalizio dedito alle attività ginnico-sportive e centro di incontro di irredenti, che fu dato alle fiamme. In questa circostanza un giovane assalitore morì, vittima della sua stessa baldanza. Era sera quando la folla, ritornata davanti alla sede del «Piccolo», negligentemente protetta da un cordone di forza pubblica, riuscì a forzarne l’accesso, a devastare l’interno dell’edificio e a incendiarlo. La moltitudine dei dimostranti intanto si era accanita contro altri luoghi di ritrovo degli irredentisti, i caffè «Volti di Chiozza», «Fabris», «San Marco», «Stella Polare», «Edison», «Milano», assaltati, incendiati o danneggiati, e contro negozi e magazzini, invasi e saccheggiati, di triestini ritenuti simpatizzanti per l’Italia e di «regnicoli», i sudditi del Regno d’Italia residenti in citta. I disordini l’indomani persero forza, anche per un più deciso intervento di gendarmi e soldati. L’ordine completo in città fu riportato il martedì. Nel frattempo le autorità austriache erano intervenute con l’imposizione dello stato d’assedio. Lo stesso 23 maggio, il governo cittadino, espressione delle forze liberalnazionali, fu commissariato. A seguire, le associazioni irredentiste vennero sciolte e gli esponenti più in vista dell’ambiente filoitaliano furono arrestati e internati nell’interno della Monarchia come «politicamente sospetti». A migliaia, i sudditi italiani furono costretti ad abbandonare la città. I regnicoli maschi in età di servizio militare furono invece internati. La propaganda austriaca presentò i disordini del 23 maggio come un atto spontaneo di attaccamento e fedeltà agli Asburgo da parte dei triestini, seppur da deplorare per gli eccessi.
A.V.