La violenza contro i civili è un tratto distintivo della totalità della Grande guerra, che venne declinato dalle potenze belligeranti in vari modi e con diversi gradi di intensità, particolarmente elevata nei teatri di guerra orientale e balcanico, ma non certo assente sul fronte austro-italiano. Comune alle due parti fu l’uso di strumenti di intimidazione nei confronti della popolazione (minacce di evacuazione o di internamento, proclamazione del giudizio statario), volte ad eliminare eventuali opposizioni nei confronti delle misure lesive dei diritti degli abitanti (requisizioni, divieti di vario genere), e nel contempo evitare forme di resistenza passiva ed acquisire la collaborazione in tutti gli aspetti utili alle truppe operanti sul territorio.
Ad un livello più elevato si situano gli internamenti, che non furono solo preventivi ma anche punitivi verso chi protestava per qualche provvedimento a suo danno (specie requisizioni), esternava «sentimenti austro fili» o, a seconda dei casi, «filo-italiani», come punitive furono alcune evacuazioni di popolazioni sospette di aiutare il nemico (Spodnj Log/Bretto di sotto presso Bovec/Plezzo da parte austriaca, i villaggi posti alle pendici del Krn/Monte Nero da parte italiana). Anche il pesante bombardamento delle artiglierie italiane che tra il 9 e il 10 giugno 1915 produsse la distruzione e l’incendio di Lucinico fu una forma di ritorsione contro gli abitanti in seguito ad agguati alle truppe italiane tra le case del paese ormai quasi spopolato, opera, invece, probabilmente di pattuglie austriache.
Analogo significato ebbe la presa di alcuni ostaggi tra i civili di Gorizia da parte del comando della 58ª divisione austro-ungarica in seguito al verificarsi di atti di sabotaggio (o presunti tali) delle linee telefoniche, ma anche carattere preventivo vista la minaccia di giustiziarli nel caso gli episodi si ripetessero. Tra i casi di violenza vera e propria – e con esiti tragici – va registrato quello del goriziano Emilio Cravos, processato sommariamente dal tribunale militare e giustiziato con l’accusa di aver inneggiato pubblicamente all’Italia e disprezzato l’Austria.
Dalla parte italiana del fronte diversi furono gli episodi che videro civili delle «terre redente» vittime di fucilazioni sommarie o di eventi simili, non sempre molto lineari nel loro svolgimento. Benché manchi uno studio complessivo, dall’incrocio di fonti memorialistiche, diari e studi analitici sui casi più gravi, si possono stimare tra 30 e 40 le vittime delle truppe italiane sul fronte dell’Isonzo, la maggior parte delle quali nella zona di Caporetto, in cui la diffidenza dei comandi verso la locale popolazione slovena giocò un ruolo non secondario. L’episodio più grave – che per le modalità con cui si svolse è il più grave tra quelli verificatisi sul fronte austro-italiano – è la «decimazione di Idrsko», località nei pressi di Kobarid/Caporetto, che coinvolse gli abitanti dei vicini villaggi posti ai piedi del Krn/M. Nero. Questi ultimi furono accusati di collaborare con le truppe austriache e ritenuti responsabili di alcuni insuccessi nell’attacco italiano al Krn. Nei confronti dei maschi adulti dei paesi di Ladra, Smast, Libušnje, Kamno, Vrsno e Krn venne praticata una vera e propria decimazione: 60 i radunati nei pressi di Idrsko, 6 i fucilati, deportati in Sardegna i superstiti, uno dei pochi casi di internamento di massa operati dai comandi italiani. Gli abitanti rimanenti – donne e bambini – vennero evacuati in Italia dove vissero come profughi.
Episodi simili si verificarono anche nel Friuli orientale; tra questi la fucilazione di tre abitanti di Lucinico ritenuti spie austriache, avvenuta nel vicino paese di Mossa, e i tragici «fatti di Villesse». Il 27 maggio 1915 un reparto della brigata Pinerolo occupò Villesse: temporaneamente isolato a causa della piena del torrente Torre, il comandante maggiore Domenico Citarella si convinse di essere circondato da spie e forze ostili, anche in seguito ad alcuni scontri tra pattuglie italiane ed austriache, nelle quali erano presenti uomini della milizia territoriale arruolati all’ultimo momento, privi di divisa e recanti solamente un contrassegno giallo-nero al braccio. Il maggiore prese in ostaggio i maschi dai 16 anni in su (circa 150) e li fece collocare nella funzione di «scudi umani» attorno a delle barricate costruite nelle vie del paese, i cosiddetti fassinârs (da fascine). Nella notte tra il 29 e il 30 maggio nel corso di una sparatoria vennero uccisi presso una barricata 5 civili, tra cui il segretario comunale Giulio Portelli.
Mentre contesto ed eventi precedenti e successivi alla tragica notte sono stati esaurientemente ricostruiti, sulla dinamica degli istanti cruciali permane un alone di incertezza; l’ipotesi più probabile è quella di una sorta di fucilazione sommaria. Fu sicuramente fucilata il giorno successivo la sesta vittima, Severino Portelli, figlio di Giulio e praticante segretario comunale nella vicina Sagrado, trovato in possesso di un salvacondotto e di documenti redatti in tedesco, cosa ovvia date le sue funzioni. Gli altri ostaggi furono internati a Palmanova; dopo circa tre settimane, provati ed intimiditi, vennero ricondotti in paese, ad eccezione di 11, tra cui il parroco don Nicodemo Plet, internati per periodi più o meno lunghi nella penisola.
La maggior frequenza di questi episodi dalla parte italiana del fronte non va attribuita ad una maggior crudeltà delle truppe italiane rispetto a quelle austriache, che su altri fronti si resero responsabili di violenze su vasta scala, ma alla diversità del contesto, fermo restando che si tratta comunque di crimini di guerra ingiustificabili. Le truppe asburgiche operavano sul proprio territorio, quelle italiane occupavano un territorio nemico abitato da popolazioni percepite – sia pur in misura diversa – come inaffidabili od ostili, che finirono per essere vittime della loro identità di genti di frontiera.
P.M.