Quando l’Italia dichiarò la neutralità, il 2 agosto 1914, in ogni caso rendendo ammissibile un’ipotetica entrata in guerra, le condizioni dell’esercito italiano potevano considerarsi moderatamente vantaggiose per una guerra a fianco degli Imperi centrali, con i quali sussistevano un’integrazione operativa e piani bellici comuni, di meno invece nel caso di un’eventuale conflitto a fianco dell’Intesa. Ben presto apparve chiaro che nessuno dei contendenti aveva mostrato una chiara superiorità sul campo e si pose con evidenza negli ambienti politico-militari la questione della preparazione del paese al conflitto. Il capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, era ancora convinto di poter intervenire entro l’autunno, e ciò fu scartato dal governo, ma era fuor di dubbio che una neutralità prolungata se da una parte favoriva la preparazione alla guerra, d’altro canto toglieva risolutezza ad un intervento, metteva sull’avviso gli avversari, qualsivoglia fossero, non favoriva il morale del corpo militare, creava tensioni nella politica e nella società. In realtà il governo presieduto da Antonio Salandra e la nostra diplomazia avevano bisogno di tempo per portare avanti le trattative, che si immaginavano lunghe, con i futuri alleati. Per inciso, vi era già l’inclinazione dell’esecutivo a favore di un intervento a fianco dell’Intesa. Salandra riteneva impreparato l’esercito, pensava ad operazioni militari nella primavera del 1915 e lo comunicò al re in una Relazione che porta la data del 30 settembre. È indubbio vi fosse nell’atteggiamento del presidente del Consiglio il desiderio di ripararsi dalle prevedibili accuse di aver concesso scarsi finanziamenti al potenziamento dell’esercito, nonostante le richieste del ministero della Guerra e dei capi militari. Ma le opinioni negative sulla preparazione dell’esercito erano in parte condivise pure dall’ambiente militare, e Salandra se ne servì per sostenere e forzare le sue le sue tesi. La durata delle operazioni e dell’occupazione in Libia e l’impegno in Albania incidevano sull’opera di rinnovamento tecnico e sull’organico. Forti deficienze in qualità e quantità si riscontravano nell’artiglieria, che gli esempi della guerra moderna rivelavano dominatrice del campo di battaglia. Se cominciava ad entrare nelle batterie l’ottimo materiale leggero Déport (modello 1911), carenze sostanziali si riscontravano nell’artiglieria d’assedio e campale, dove il nostro parco assemblava perlopiù materiale vecchio e con affusto rigido. Gli apprezzabili sforzi prodotti dal direttore generale d’artiglieria e genio Alfredo Dallolio – che diventerà nel corso del conflitto il vero organizzatore della produzione di guerra italiana – nel rinnovo delle artiglierie non avevano fornito risultati decisivi a causa delle ristrettezze del bilancio. Da non sottovalutare era anche il problema del munizionamento, che un po’ tutti i contendenti nel conflitto avevano sottovalutato e che per molti eserciti ora si poneva come emergenza: invero, la nostra dotazione iniziale era buona, superiore a quella ad altre forze armate, ma una produzione in grande stile era tutta da organizzare e cominciò in effetti in ritardo, di fatto con la costituzione sottosegretariato per le Armi e Munizioni nel luglio 1915. Altre diffuse criticità si manifestavano nelle dotazioni per la mobilitazione, dal vestiario agli equipaggiamenti, alle assegnazioni di fucili, alle forniture di mitragliatrici, la cui consegna ai reparti era molto contenuta. Nel settore organico gravi lacune interessavano la mobilitazione della Milizia territoriale e della Milizia mobile, i cui ruoli di concorso e complemento all’esercito di prima schiera era rilevante, la scarsità dei quadri e l’addestramento della truppa, anche se in quest’ultimo caso l’esperienza della guerra di Libia aveva fornito utile esercizio. L’interesse del capo di Stato Maggiore e del ministero della Guerra in tutto il periodo della neutralità fu indirizzato a migliorare la preparazione delle truppe e ad approntare le dotazioni per la mobilitazione e l’Intendenza, per reintegrare equipaggiamenti e scorte. Anche se rimaneva ancora molto da fare, le condizioni di efficienza dell’esercito italiano all’entrata in guerra non furono quelle che una certa retorica nazionalista e poi fascista ha cercato di attribuire ai governi liberali. La qualità degli armamenti e dell’equipaggiamento forse non corrispondeva sempre ai più elevati livelli continentali, tuttavia nel complesso era avvertibile un impegno nel rinnovamento dei materiali e nel loro accrescimento numerico. Ed è soprattutto evidente lo sforzo prodotto durante il conflitto per armare ed equipaggiare con dotazioni leggere e pesanti un complesso crescente di armati. Se a fine 1915 l’esercito operante poteva contare su un milione di soldati, nel 1917 oltre due milioni e duecentomila uomini gravitavano sul fronte. Le divisioni armate ed equipaggiate passarono, nello stesso periodo, da 35 a 65, i corpi d’armata da 14 a 25. In parallelo, l’armamento seguì una progressione molto rapida: nella sola artiglieria dai 246 pezzi di medio calibro dell’entrata in guerra si passò ai 3.000, nel piccolo calibro dai 1.770 ai 5.000. Uno sforzo imponente.
A.V.