Kirsanov

Kirsanov

Ampie tracce intorno alle vicende umane, politiche e militari di cosiddetti kirsanover si trovano nel famoso volume di Gaetano Bazzani, Soldati italiani nella Russia in fiamme (Trento 1933), nei resoconti giornalistici di Renzo Lario corrispondente per «Il Corriere della sera», di Armando Zanetti, ne «Il giornale d’Italia», di Virginio Gayda allora corrispondente in Russia per «La Stampa» e nelle testimonianze dei prigionieri. Tra le più note, quelle dei trentini Giuseppe de Manincòr ed Annibale Molignoni. Altri importanti riferimenti si colgono nelle memorie del piranese Silvio Viezzoli, nei diari degli ufficiali e dei soldati friulani curati da Camillo Medeot, nell’autobiografia di guerra dello scultore Ermete Bonapace. Un confronto tra fonti soggettive e nuovi documenti d’archivio consente un esame più approfondito di quell’esperienza. Nel campo di Kirsanov, individuato nella seconda metà del 1915 come centro di raccolta provvisorio degli italiani destinati all’Italia, trascorsero la loro prigionia migliaia di austro-ungarici di tutte le nazionalità e di diverso credo politico, fino agli anni della guerra civile, come risulta dai fondi esistenti nell’archivio regionale di Tambov.
Non lontano da Tambov (150 chilometri) esiste ancora la località agricola di Kirsanov (30.000 abitanti), rimasta pressoché inalterata nella sua fisionomia architettonica: al centro l’antico bazar, che si affaccia sulla piazza del mercato affiancato da alcuni suggestivi edifici purtroppo abbandonati al degrado, tra cui l’ex ginnasio. Non v’è traccia, invece, della bella chiesa dalle cupole verdi, raffigurata in tante cartoline gelosamente custodite dai reduci rientrati in patria prima della bufera rivoluzionaria, in quanto distrutta dai bolscevichi. A breve distanza dal centro, non diversamente da Tambov, strade di terra battuta, isbe di legno colorato, carri trainati da cavalli, secondo un’antica tradizione tipica della Russia mantenutasi intatta anche in altri luoghi contigui, come Marshansk, Shatzkij, Mičurinsk nelle cui tenute furono reclutati, per svolgervi lavori agricoli, molti nostri prigionieri.
Sulla sommità di una piccola altura si distende il cimitero, che attualmente raccoglie le spoglie dei caduti della Seconda guerra mondiale: russi, tedeschi, italiani, deceduti nell’ospedale militare di Kirsanov, già esistente negli anni 1915-16, o in seguito alle sofferenze patite nel campo di prigionia numero 188 (stazione di Rada), situato a venti chilometri da Tambov, non molto distante da Voronež e quindi dal fronte del Don.
Nell’area del cimitero è perfettamente riconoscibile la chiesa intorno alla quale si riunivano in preghiera i kirsanover, a noi nota soprattutto attraverso la fotografia riprodotta in cartolina, allorché, nel luglio 1916, fu inaugurato il monumento di Ermete Bonapace, lo scultore trentino prigioniero nel campo. La grande croce, già eretta in ricordo degli irredenti scomparsi in Russia, oggi imbiancata da una mano di calce, onora le spoglie dei soldati germanici deceduti nell’ultimo conflitto mondiale, mentre le spoglie degli austro-ungarici sono state completamente rimosse insieme alle loro tombe agli inizi degli anni Cinquanta, come risulta dalle fotografie e dai documenti d’archivio. Lo stesso museo storico della cittadina di Kirsanov non conserva alcun ricordo del grande campo di prigionia in cui vissero o tragicamente perirono centinaia di migliaia di austro-tedeschi, tra i quali molti trentini e giuliani, passati in mezzo alle bufere della rivoluzione e della contro-rivoluzione a prezzo di inenarrabili stenti e sofferenze.
A Kirsanov la lunga attesa del rimpatrio fu certamente più dolorosa per quanti non riuscirono a trovare un’occupazione esterna del campo e divenne ancora più snervante allorché agli italiani, divenuti ormai alleati della Russia, venne meno l’obbligo del lavoro e, con esso, di una fonte di sostentamento. Inoltre – lo riferiscono molti irredenti – i comandi dell’esercito italiano pretesero una maggiore disciplina. Per combattere la noia e la spersonalizzazione propria di ogni regime coatto, i reclusi nelle caserme, nelle scuole, nel teatro, nelle carceri, nell’edificio della posta, nelle baracche, si appellarono a tutte le loro risorse creative. Silvio Viezzoli narra della nascita del giornaletto degli irredenti «La Nostra Fede», ideato già ad Orlov dal fiumano Clemente Marassi che a Kirsanov ne divenne il direttore. Gran parte dei redattori erano invece trentini:
«S’intitolava adunque il giornale “La Nostra Fede” e aveva per motto il dantesco “non sbigottir, ch’io vincerò la prova”. Costava tre copechi e usciva di solito una volta la settimana; il primo numero portava la data del 26 febbraio 1916. Aveva articoli politici e letterari, quasi tutti d’intonazione patriottica. Pubblicava anche un bollettino quasi giornaliero, con le notizie della vita di Kirsanoff, e le notizie della guerra, i bollettini delle varie fonti, tradotti dai giornali russi, specialmente dal “Ruskoje slovo”».
Eugenio Laurenti ricorda la formazione di una numerosa orchestra diretta dal maestro triestino Gallovich, nell’ambiente delle carceri, che si esibiva nelle varie caserme russe, il coro e la coppia Pulcinelli:
«La coppia Pulcinelli era composta da Sambo – disegnatore – e Novach – tramviere –, ambedue triestini. Sambo, vestito da ballerina, aveva una voce da soprano raramente inimitabile, tanto che i russi non si capacitavano che potesse trattarsi di un uomo e dicevano: “Crt talianzi” (diavoli di italiani), come hanno fatto a portare qui una donna prigioniera».
Nella sala da the (Čajnaja), dov’erano alloggiati altri prigionieri, il pittore calligrafo Marcello Saftigh dava vita, in contrapposizione ironica a «La Nostra Fede», al numero unico del giornaletto «La nostra fame», che recava come emblema un pidocchio schiacciato.
Silvio Viezzoli è anche autore di una gustosa parodia della Divina Commedia, dieci canti in terza rima (1.156 versi), intitolato appunto Dante a Kirsanov, nella quale immaginò che il sommo poeta, guidato da Virgilio, compisse un viaggio in Russia ed incontrasse molti triestini, istriani e trentini che vi erano internati.

M.R.

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