Il colera del 1915 in Friuli

Il colera del 1915 in Friuli

Le epidemie di colera furono una costante presenza nel mondo europeo nel corso dell’Ottocento e del primo decennio del secolo successivo, quando in italia e nel centro ed est europeo ancora allignavano focolai endemici di tale morbo. Nel primo anno della guerra mondiale il contagio si diffuse virulento nell’esercito austro-ungarico e tra le comunità delle regioni orientali dell’impero sfollate e internate nei campi profughi della monarchia, ma colpì anche civili e militari delle altre nazioni in lotta (Germania, Russia), seguendo poi percorsi complessi di propagazione che ne attenuarono la portata. Anche sul fronte dell’Isonzo nel 1915 tra i reparti italiani e i civili dei territori occupati si propagò un’infezione colerosa, determinando un preoccupante problema sanitario. I primi casi si manifestarono a luglio nelle trincee e nelle retrovie, forse in presenza di più focolai di contagio. Sembra che dell’agente patogeno fossero infette le trincee austriache occupate dagli italiani, così almeno riferiscono sui fatti le relazioni dei responsabili sanitari italiani, e che i feriti italiani portati nelle posizione arretrate trasmettessero il morbo. Ma un’individuazione delle cause così recisa potrebbe risentire della propaganda, volta ad accreditare al nemico ogni discredito, anche le condizioni igieniche più precarie. È da dire, inoltre, che ragioni di indole militare, la segretezza e la censura, la stessa vaghezza con cui nelle comunicazioni ufficiali del regio esercito si parlava di questo problema sanitario, resero meno certa l’origine e la provenienza, l’area precisa della diffusione. I casi particolari erano ricordati nei rapporti medici, come nelle situazioni di Monfalcone, Villa Vicentina, Ronchi, Cormòns. Tutto lascia intendere che la zona principale di contaminazione fosse entro il perimetro CervignanoCormònsMonfalcone, seppure notizie di contagio coleroso giungessero dai dintorni di Udine, dallo stesso capoluogo friulano e da altre parti della zona di guerra, inconsapevolmente trasmesso da soldati in spostamento. Le strutture della sanità militare e i medici da campo all’inizio sottovalutarono le potenzialità di diffusione dell’infezione, forse per la facilità con cui la sintomatologia ricorda le infezioni gastrointestinali e la dissenteria, compagne abituali del combattente. Gli stessi comandi considerarono con priorità le ragioni militari delle operazioni belliche in corso (seconda battaglia dell’Isonzo) rispetto alla diagnostica, profilassi e cura dell’evento virale. La quarantena non poteva aver luogo lontano dalla linea, in quanto le truppe dovevano esser tenute alla mano; spostare reparti con troppa frequenza d’altra parte poteva significare di contaminare le retrovie. Attorno al 20 luglio già 150 soldati erano ricoverati nei lazzaretti. Ebbero luogo i primi decessi. Altri reggimenti sulla linea del fuoco furono raggiunti dall’epidemia. Nel mese di agosto la situazione sanitaria peggiorò ulteriormente. I timori per una diffusione incontrollata del vibrione colerico si fecero reali. Le autorità militari e politiche, già inasprite per la scarsa vigilanza e le inefficaci misure di profilassi con cui era stata affrontato l’ammorbamento dei reparti, ora paventavano il possibile impatto sulla popolazione civile e l’infiltrazione di notizie non controllate presso l’opinione pubblica dell’interno. Gli stessi ambienti della Sanità militare fornivano dati ora allarmanti ora minimizzanti ora rassicuranti sui decessi di militari, a indicare lo scarso controllo degli eventi: dalle ammissioni d’una cinquantina di deceduti al giorno, alle dichiarazioni di una mortalità tutto sommato limitata a pochi casi. Contando sulla pausa estiva nelle operazioni militari, furono imposti la vaccinazione di massa, pratiche più rigorose di prevenzione, disinfezioni generalizzate, il controllo dell’acqua, l’isolamento per i sospetti di contagio. L’epidemia regredì fino a quasi scomparire. Si acuì nuovamente, con riprese violente e improvvise, nei mesi autunnali, in occasione della ripresa delle azioni offensive, con implicita dimostrazione del legame che intercorreva tra la malattia virale e le precarie condizione igieniche, la sporcizia, la mancanza di acqua depurata, la promiscuità nella vita di trincea durante la battaglia, unitamente alle particolarità del clima e dell’ambiente. Cifre ufficiali indicarono all’inizio di dicembre 1915, per l’intero decorso della crisi epidemica iniziata a luglio, l’ammontare di circa 7900 contagiati con un totale di 2288 decessi, grosso modo il trenta per cento dei casi. In generale, l’isolamento dei casi individuali era stato più semplice dei provvedimenti di profilassi, sicuramente meno agevoli a gestirsi.
La popolazione civile dei territori occupati e della retrovia friulana conobbe anch’essa forme di morbosità sporadicamente acute, trasmesse nei contatti ordinari che sussistevano tra militari e borghesi. Localmente, le punte di mortalità furono anche relativamente più alte di quelle tra i reparti, raggiungendo la metà dei casi trattati. Le cifre ufficiali parlano di 730 soggetti trattati, con oltre 300 decessi. Non è un caso che nei territori occupati ad agosto fosse sospesa l’evacuazione delle popolazioni verso l’interno, già ampiamente in atto, per timore di alimentare la virulenza e renderla incontrollata. I trasferimenti furono ripresi quando la crisi sanitaria fu superata. Nel dicembre 1915 si manifestò ancora una impennata del contagio tra i militari. Si trattò di ben 3700 nuovi casi, affrontati questa volta con potenziate misure di isolamento e cura, mentre al contempo venivano messe a punto dalle autorità sanitarie militari più vaste pratiche di vigilanza, profilassi e contumacia. Se allo scoppio del contagio i laboratori chimici d’armata e le strutture mediche si erano mostrati insufficienti ad affrontare l’emergenza, ora un più articolato sistema di prevenzione e pronto intervento era stato organizzato su tutto il fronte dell’Isonzo. Nel 1916, in relazione alle misure prese, non si riscontrarono focolai di infezione particolarmente significativi; qualche virulenza si mostrò nell’autunno appena iniziato. La vera urgenza per la Sanità militare in tema di contagio coleroso riguardò i prigionieri di guerra austriaci portati con sé dall’esercito serbo in ritirata ed evacuati tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 dalla marina italiana. Non vi furono casi di infezione nel 1917 e 1918. Ma proprio nell’ultimo anno di guerra una disastrosa pandemia si diffuse negli eserciti e tra i civili: l’influenza spagnola.

A.V.

  • Bibliografia
    A. Sema, civili, militari e colera in friuli 1915-1916, «rivista di storia contemporanea», n. 1, 1992; E. Dimitri, monfalcone estate 1915. La guerra e il colera, «bisiacaria», numero unico 1990)
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