Borgia Sedej Frančišek (arcivescovo di Gorizia)

Borgia Sedej Frančišek (arcivescovo di Gorizia)

Frančišek (Francesco) Borgia Sedej nacque a Cerkno/Circhina nel 1854, studiò a Gorizia al ginnasio tedesco e al seminario teologico; ordinato sacerdote nel 1877, proseguì gli studi alla facoltà teologica di Vienna, venendo ammesso al collegio Augustineum. Dopo la laurea nel 1884 ricoprì alcuni incarichi nella sua diocesi natale, tra cui quello di insegnante al seminario teologico; dal 1889 fu uno dei quattro cappellani (e direttori degli studi) dell’Augustineum, finché nel 1898 l’arcivescovo di Gorizia Missia lo richiamò in diocesi quale parroco della Metropolitana e decano del Capitolo metropolitano. In questo prestigioso ruolo, cui affiancò ulteriori incarichi di insegnamento al seminario teologico, Sedej rimase fino al 1906, anno in cui venne nominato principe-arcivescovo dell’Arcidiocesi di Gorizia e Gradisca.
Legato alla concezione lealista e filo-asburgica della chiesa austriaca e nel contempo interprete della tradizione universalistica cattolica romana, mons. Sedej cercò di governare con equilibrio una diocesi attraversata da tensioni nazionali che avevano prodotto spaccature anche all’interno del mondo cattolico e del clero, favorendo al tempo stesso le iniziative dei movimenti cristiano-sociali italiano e sloveno della diocesi, ai cui ideali si sentiva vicino.
Dopo lo scoppio del conflitto gli interventi di mons. Sedej – lettere pastorali e interventi diretti al clero – appaiono politicamente allineati a quelli dell’episcopato austriaco nel giustificare la guerra asburgica e nel presentarla non solo come «guerra giusta», ma anche come un conflitto tra la cattolica Austria e le ortodosse Serbia e Russia, posizioni cui è sottesa una visione della guerra come flagello divino, di cui denunciò gli orrori, occasione perciò di pentimento e di conversione. Nelle successive pastorali dirette ai profughi prevale l’invito alla rassegnazione e alla preghiera nell’attesa paziente del futuro rimpatrio, non senza accenni alla fiducia in una pace vittoriosa per l’Impero.
Dopo l’intervento italiano, l’arcivescovo rimase a Gorizia per un paio di mesi, poi il timore dei bombardamenti e il consiglio delle autorità militari lo indussero ad abbandonare la città, fermandosi prima a Vipava nella valle dell’omonimo fiume (il Vipacco), poi nei pressi della natia Cerkno, per riparare definitivamente nel monastero di Stična, nella Carniola interna a nord-est di Lubiana, dove contestualmente si trasferì il seminario teologico per continuare sia pur a ranghi ridotti la sua attività. Dal monastero cragnolino mons. Sedej continuò a governare la propria diocesi, occupandosi sia del clero rimasto nelle retrovie del fronte, che spesso difese dalle pretese e dalle accuse delle autorità militari, sia dei sacerdoti che condividevano la profuganza con i propri fedeli; fece anche alcune visite ai campi profughi in cui erano ospitati i suoi diocesani.
La collocazione geografica poco felice di Stična, lontana dalle vie di comunicazione, rese tuttavia difficile il suo operato, in particolare quello riguardante il clero profugo, che implicava frequenti contatti con le autorità viennesi e degli altri Land della Monarchia, nonché con mons. Faidutti, che fin dall’inizio del conflitto italo-austriaco si era occupato della questione – anche nella veste di vice-presidente del Comitato di soccorso per i profughi del Meridione – e più tardi con il decano di Tolmin/Tolmino Ivan Rojec, che per alcuni mesi svolse il ruolo di delegato del vescovo per la cura d’anime dei profughi sloveni. Sovrapposizioni di competenze e lentezza delle comunicazioni crearono non pochi inconvenienti nelle procedure di nomina dei curatori d’anime dei profughi e nella gestione delle problematiche connesse alla loro attività.
Dopo Caporetto, l’arcivescovo esternò il suo giubilo per la liberazione di Gorizia e della parte della diocesi occupata dagli italiani, con toni molto duri nei confronti del «nemico traditore», espressioni del resto già presenti nelle pastorali precedenti e che verranno più volte utilizzate nel dopoguerra dalle forze nazionaliste e fasciste che chiesero a più riprese la sua rimozione. Si trattava tuttavia di un attacco all’Italia intesa come Stato e non agli italiani in quanto tali, tanto che mons. Sedej, a differenza di diversi suoi confratelli, non aderì nel maggio 1917 alla Majniška Deklaracija – che chiedeva l’unione dei popoli slavi all’interno del nesso asburgico – in quanto pastore di una diocesi nazionalmente mista.
Rientrato a Gorizia nel marzo 1918, assisté al crollo dell’Impero asburgico e alla definitiva inclusione della città nello Stato italiano. Gli anni del dopoguerra lo videro impegnato nella difficile battaglia per la difesa dei diritti del clero e dei fedeli sloveni di fronte ai progetti di snazionalizzazione operati dalle autorità italiane e dal regime fascista, oggetto di campagne denigratorie e di attacchi politici, che alla fine, anche per il mancato sostegno della S. Sede, ottennero le sue dimissioni, sottoscritte nell’ottobre 1931, poche settimane prima del suo decesso.

P.M.

  • Bibliografia
    Sedejev Simpozij v Rimu, a c. di E. Škulj, Mohorjeva Družba, Celje 1988; P. Malni, Tra internamento e profuganza: il clero Goriziano nella prima guerra mondiale, in L’Arcidiocesi di Gorizia dall’istituzione alla fine dell’Impero asburgico (1751-1918), a c. di J. Vetrih, Atti del Convegno (Gorizia, novembre-dicembre 2001), Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia – Forum, Gorizia-Udine 2002, pp. 449-466; I. Portelli, Pastore dei suoi popoli. Mons. Sedej e l’arcidiocesi di Gorizia nel primo dopoguerra, Consorzio Culturale del Monfalconese - Associazione «Adriano Cragnolin», Ronchi dei Legionari- San Pier d’Isonzo 2005.
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