Una città portuale come Trieste non poteva che pagare da subito uno dei primi effetti dell’entrata dell’Europa in guerra: la chiusura dei confini e il blocco dei traffici navali. Ciò si tradusse immediatamente in una cronica mancanza di alimenti, che si prolungò per tutto il conflitto. Lo Stato quindi, anche in questo settore, entrò pesantemente nell’economia e nella vita privata dei cittadini, allo scopo di rifornire la popolazione dei generi di prima necessità, la cui distribuzione dovette passare attraverso i canali militari ed essere inquadrata nei più vasti piani dell’economia di guerra. Le associazioni benefiche dei privati furono le prime a intervenire nel sostegno delle famiglie, ma già ai primi di agosto del 1914 le autorità cominciarono ad erogare dei sussidi alle mogli e ai figli dei richiamati cui furono garantiti dei pasti gratuiti in alcune cucine pubbliche della città. Non di rado tuttavia, la complessa burocrazia asburgica diede luogo a disfunzioni di vario tipo. Inoltre, tutto ciò non fu sufficiente, perché il prezzo del cibo era subito aumentato. Il valore della farina, del pane, delle verdure, della carne era raddoppiato in pochi giorni, in quanto la popolazione, temendo il peggio, aveva immediatamente provveduto a fare scorte supplementari. L’aumento della domanda di viveri, senza che però ne fosse aumentata anche l’offerta, produsse un immediato rialzo dei prezzi e il veloce esaurimento delle merci. Le autorità cittadine di Trieste, così come degli altri centri del Litorale, predisposero quindi una Commissione di approvvigionamento, il cui compito fu quello di imporre dei prezzi fissi agli alimenti, i cosiddetti calmieri, e di assicurare il regolare arrivo del cibo. Presto si rese necessario anche il razionamento.
Dal giugno 1915 la Commissione consegnò delle tessere con dei tagliandi da staccare, che davano diritto solo a un certo quantitativo di prodotti essenziali. Intanto, già nell’agosto 1914, sorse il mercato nero dove era possibile comprare a prezzi spropositati tutto ciò che non si trovava. Molti commercianti improvvisati, speculando sui bisogni della gente, conseguirono lauti guadagni. Nell’aprile del 1915, la mancanza di pane spinse alcune donne a reclamare duramente nei confronti delle autorità. Esplosero dei veri e propri moti popolari, in cui la folla assaltò i negozi chiedendo una distribuzione più abbondante e costante di pane, un prodotto la cui stessa qualità era ormai molto scadente. Non di rado, infatti, veniva persino aggiunta segatura o sabbia per rendere più pesanti le pagnotte. Fu anche la precaria situazione alimentare a provocare l’assalto ai luoghi simbolo dell’Italia in città, nei giorni dell’ingresso di Roma nel conflitto.
Un tempo, la politica dello Stato sugli alimenti era chiamata «annonaria». È importante sottolineare però che non si trattava di beneficenza; sussidi di guerra e tessere annonarie venivano distribuiti come compensazione delle autorità per i sacrifici che tutti i cittadini dovevano fare in tempo di guerra. Le famiglie offrivano alla patria le forze più valide del paese, ma le istituzioni dovevano impegnarsi ad assicurarne la sopravvivenza.